Russia: le sanzioni occidentali fanno temere la recessione

Fosche nubi si addensano sulla Russia. Nei giorni scorsi il rublo si è svalutato sensibilmente nei confronti di euro e dollaro. Agli sportelli delle banche è stata una corsa al cambio della moneta. Se a questo aggiungiamo il forte calo del prezzo del petrolio, da cui il Cremlino ricava oltre metà delle entrate, non è difficile intuire che i mesi a venire saranno per i russi a dir poco problematici. Alcuni già scommettono che l’anno prossimo Mosca entrerà in recessione. Oggi il presidente Vladimir Putin, parlando in una conferenza stampa davanti a 1200 giornalisti, ha assicurato che il Paese uscirà dal pantano nel giro di due anni. Gli analisti però nutrono seri dubbi.

Il presidente russo Vladimir Putin in una foto pubblicata da www.the-american-interest.com
Il presidente russo Vladimir Putin in una foto pubblicata da www.the-american-interest.com

La crisi della moneta russa è la conseguenza delle tensioni scaturite recentemente nei rapporti tra il Cremlino e la comunità internazionale. Putin ha puntato il dito contro l’Occidente: “La crisi” – ha detto nella conferenza stampa di oggi – “è provocata da elementi esterni. Vogliono che l’orso [la Russia] stia seduto tranquillamente e mangi il miele, ma tentano di metterlo in catene, di togliergli i denti e gli artigli e impagliarlo”. A cosa si riferisce? Alle sanzioni che gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno adottato contro Mosca per aver violato i trattati e le norme di diritto internazionale nella questione ucraina. E’ qui infatti che gli opposti interessi della Russia e dei paesi occidentali si sono scontrati in tutta evidenza. Putin ha mostrato di non voler rinunciare a territori sui quali Mosca ha esercitato da secoli la sua influenza: l’annessione della Crimea, il sostegno ai partigiani filorussi del sudest ucraino sono atti di una politica tesa a difendere il ruolo della Russia quale grande potenza mondiale su un piano di parità con gli altri paesi del G7.

Il presidente degli Stati Uniti Obama con il presidente polacco Komorowski. Photo: PAP/Pawel Supernak
Il presidente degli Stati Uniti Obama con il presidente polacco Komorowski. Photo: PAP/Pawel Supernak

Dall’altra parte troviamo le potenze occidentali, Stati Uniti in testa. Obama ha garantito pieno appoggio ai governi ucraini che si sono succeduti dopo la rivoluzione di Jevromajdan, asserendo che la libertà del popolo ucraino sarà difesa ad ogni costo. Nel discorso tenuto a Varsavia il 5 giugno il presidente degli Stati Uniti, mettendo sullo stesso piano l’Ucraina di oggi con la Polonia dei primi anni Novanta liberata dal comunismo sovietico, ha affermato: “in qualità di uomini liberi noi ci uniamo, non semplicemente per salvaguardare la nostra sicurezza, ma per far compiere passi avanti alla libertà altrui…lo facciamo perché crediamo che i popoli e le nazioni abbiano il diritto di determinare il proprio destino. E ciò include il popolo ucraino”. Obama ha le idee chiare: intende ridimensionare la Russia confinandola al rango di una potenza regionale. L’obiettivo è allargare ad est la sfera d’influenza militare ed economica dell’Occidente, favorendo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Unione Europea.

Le tensioni tra l’Unione europea e la Russia si sono acuite nelle scorse settimane quando Putin ha annunciato di voler fermare la costruzione del gasdotto Southstream che avrebbe consentito ai paesi dell’Europa meridionale (Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia, Austria e Italia) di ottenere il gas russo senza passare per la costosa mediazione dell’Ucraina. Nello spiegare l’abbandono del progetto, Putin ha puntato il dito contro la Bulgaria e l’Unione Europea, responsabili di aver bloccato l’avanzamento dei lavori. Non sappiamo di chi sia la colpa. E’ certo che tutto questo ha finito per rendere ancor più profonda la spaccatura tra Russia e Occidente.

L'assedio di Očakov 1788, di Sučodolskij da http://john-petrov.livejournal.com/655857.html
L’assedio di Očakov 1788, di Sučodolskij da http://john-petrov.livejournal.com/655857.html

Il 17 dicembre 1788, durante la guerra russo-turca, il generale Grigorij Alexsandrovič Potëmkin conquistò la fortezza ucraina di Očacov. Quella vittoria consentì alla Russia di mantenere la Crimea e di ottenere una fortezza che, situata in un punto strategico quale il lato destro della foce del Dnepr, venne espugnata grazie a un memorabile assedio che aveva ridotto alla fame gli occupanti turchi. Allora Kiev e la parte dell’Ucraina situata ad oriente del fiume Dnepr erano da più di un secolo sotto l’impero della grande Caterina e sarebbero rimaste russe fino alla prima guerra mondiale.

Crimea e Ucraina continuano ad essere terreno di contesa ma oggi è la Russia, per uno strano paradosso della storia, ad essere affamata dalle sanzioni occidentali.

La Rinascente: morte e resurrezione di un negozio storico

Facciamo un giro in piazza del Duomo. Lo spazio a sinistra della cattedrale era conosciuto un tempo come “gli scalini del Duomo” perché fino agli anni trenta dell’Ottocento le gradinate si trovavano unicamente sul lato nord della chiesa e sulla parte antistante alla facciata.

Se si prosegue a sinistra  è possibile raggiungere il palazzo monumentale della Rinascente, il prestigioso emporio della moda che va sempre più somigliando al londinese Harrods o alle parigine Galeries Lafayette.  Potremmo dire che la storia della Rinascente è stata un continuo altalenarsi di alti e bassi, di crisi ed inattese resurrezioni.

Ferdinando Bocconi (1836-1908)
Ferdinando Bocconi (1836-1908)

La data di nascita risale al 1889, quando i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi costruirono un negozio di abiti per la borghesia milanese in un’area in via Santa Radegonda, una traversa di corso Vittorio Emanuele. Il negozio era intitolato “Alle città d’Italia” ma non era certamente il primo gestito dai due fratelli. I Bocconi erano conosciuti da tempo nel settore commerciale. Originari di Lodi, iniziarono a lavorare a Milano vendendo abiti nelle bancarelle di piazza Sant’Ambrogio. Fecero fortuna in tempi relativamente brevi. Nel 1877 li troviamo già nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele, in via Tommaso Grossi: qui costruirono il primo magazzino di stoffe e generi di arredo in un edificio che in precedenza era stato sede dell’Hotel Confortable: lo battezzarono “Aux villes d’Italie”.

Ad alcuni può sembrar strano che i fratelli Bocconi fossero ricorsi al francese per intitolare il loro primo negozio di dimensioni ragguardevoli. In realtà la scelta era a dir poco ambiziosa: essi intendevano rivolgersi a una clientela completamene diversa rispetto ai milanesi che bazzicavano per le bancarelle di Sant’Ambrogio. Il francese era lingua internazionale nell’Europa dell’Ottocento, un po’ come l’inglese ai giorni d’oggi.  Eppure, a ben vedere, il francese lasciava trasparire qualcosa di più sottile. Indicava quale fosse il modello cui i fratelli Bocconi ispirarono la loro attività: era stato infatti il francese Aristide Boucicaut (1810-1877) ad aprire a Parigi una prima catena di grandi magazzini. Ma il francese era fatto soprattutto per piacere ai ricchi italiani cosmopoliti.

In un catalogo dell’8 dicembre 1879 preparato dai Bocconi per le vendite a corrispondenza era possibile rendersi conto del vasto assortimento di articoli, a partire dai giocattoli per bambini:

auz ville d'italie“Nulla di più grandioso e più ricco dell’assortimento dei balocchi e delle chincaglie…tutto  quel ben di Dio che la più fervida fantasia di un ragazzino può sognare e che le grandiose fabbriche della Germania, della Francia e della Svizzera in questo genere a sollazzo dell’infanzia umana creano, si trova in gran copia in questa speciale Esposizione. D’altra parte non mancano gli oggetti utili, e tra questi talune confezioni speciali e tagli di abiti per signora, e molti altri articoli d’uso di vera eccezionale convenienza”.

I magazzini Aux Ville d'italie in via Tommaso Grossi (1879)
I magazzini Aux Villes d’Italie in via Tommaso Grossi (1879)

Ai nazionalisti italiani il francese faceva però storcere il naso. Fu così che nel 1880 i Bocconi furono indotti a cambiar nome al negozio, ribattezzandolo “Alle città d’Italia”. I magazzini Bocconi davano lavoro in quegli anni a trecento impiegati divisi in 31 sezioni quante erano le tipologie di merci. Nell’azienda e nello stabilimento di produzione delle stoffe prestavano servizio circa 2000 persone, senza contare le succursali di Torino, Genova, Trieste e Roma. Fu in questo quadro, quando la crescita degli affari divenne esponenziale, che i Bocconi fecero costruire nel 1889 la nuova sede in via Santa Radegonda. Oltre ai reparti delle stoffe e abiti confezionati, i clienti potevano accedere a quelli di biancheria, merceria, giocattoli, mobili e arredamento, profumeria.

Al volgere del nuovo secolo si avvicinò la prima crisi. Alla morte di Ferdinando Bocconi, il figlio Ettore guidò la ditta trovandosi presto in difficoltà per la mancanza di adeguate competenze. Inoltre, i problemi nella gestione di un’impresa le cui dimensioni si erano fatte ormai considerevoli si accrebbero nella crisi in cui versò l’Italia durante la prima guerra mondiale.

Senatore Borletti (1880-1939)
Senatore Borletti (1880-1939)

Arrivò però la ripresa. Su consenso dei Bocconi venne progettata e realizzata la fusione della ditta con i “Magazzini Vittoria”. Il regista di tale operazione fu Senatore Borletti: industriale brillante e creativo, specializzato nel settore tessile, aveva fondato nel 1917 una ditta di orologi che le necessità della guerra avevano  convertito a fabbrica di spolette per proiettili. Arricchitosi enormemente grazie alle commesse belliche, il Borletti poté acquistare senza difficoltà i Magazzini Bocconi: il 27 settembre 1917 fondò “la Rinascente” il cui nome fu un’idea di Gabriele D’Annunzio. Il vate sentenziò dalle vette poetiche della sua ispirazione: “La Rinascente: l’Italia nova impressa in ogni foggia”. Si trattava ora di un vero e proprio centro commerciale. Il 7 dicembre 1918 i grandi magazzini riaprirono in corso Vittorio Emanuele.

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Il palazzo della Rinascente dell’architetto Giovanni Giachi

Ecco però la seconda crisi, questa volta imprevista: il 25 dicembre di quello stesso anno, in pieno Natale, l’edificio venne distrutto da un incendio. Borletti tuttavia, per nulla piegato da quel duro colpo della sorte, finanziò prontamente la ricostruzione affidando i lavori all’architetto Giovanni Giachi. Il 23 marzo 1921 la Rinascente riaprì le porte in uno stupendo edificio che conferiva alla zona una solenne atmosfera di eleganza e decoro urbano.

I bombardamenti del 1943 segnarono la terza crisi cui seguì per così dire la terza “resurrezione”: quella – si spera per noi milanesi – definitiva. Il 4 dicembre 1950 la Rinascente tornava a rivivere nel palazzo a portici imponenti disegnato dall’architetto Ferdinando Reggiori.

Oggi alla Rinascente respiri un’aria un po’ diversa da quella delle origini.  Trovi tanti turisti, donne d’affari, giovani e meno giovani che vanno a caccia di abiti, prodotti di design, articoli di alta moda. C’è anche chi ne approfitta per acquistare  prodotti culinari: basta prendere l’ascensore per arrivare velocemente all’ultimo piano ove trovi i grandi marchi della ristorazione “made in Italy”: penso ad Obikà o a De Santis.

Lo Stradone e i chiostri di Sant’Ambrogio nel sestiere di Porta Vercellina

Lo "Stradone di Sant'Ambrogio" quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.
Lo “Stradone di Sant’Ambrogio” quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.

Guardando la basilica di Sant’Ambrogio, costeggiando l’attigua piazza sulla sinistra si accede all’ampio viale che corre parallelo all’antico naviglio di San Girolamo (oggi via Carducci). Quel viale era conosciuto come Stradone di Sant’Ambrogio. Oggi, dopo i lavori urbanistici che hanno interessato l’isolato per molti anni, è divenuto finalmente una piacevole area pedonale intervallata da spazi verdi fino alla Caserma Garibaldi. A quel punto il viale, dopo aver costeggiato i giardini e le case della basilica ambrosiana, piega a gomito sulla destra per terminare in Largo Gemelli.

La strada è percorsa in prevalenza dagli studenti della vicina Università Cattolica. L’ateneo ha sede proprio lì, in quei magnifici chiostri dietro la basilica di Sant’Ambrogio che facevano parte anticamente di un convento abitato dai monaci benedettini dal 789 d.C. fino alla fine del Quattrocento. I canonici, vale a dire i chierici addetti al servizio in chiesa, abitavano invece nelle case vicine all’altra area della basilica. I rapporti tra i monaci e i canonici furono a dir poco complessi, segnati da rivalità che nel Medioevo erano assai diffuse tra corporazioni gelose dei loro diritti particolari.

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La basilica di Sant’Ambrogio e la Caserma San Francesco. Litografia ottocentesca a cura di Giuseppe Elena e Pietro Bertotti.

Vi siete mai chiesti per quale motivo la basilica di Sant’Ambrogio ha due campanili? Semplice: perché i canonici, stanchi di suonare le campane con i monaci del vicino convento, convinsero l’arcivescovo Anselmo V della Pusterla, nel 1128, a costruire a spese del Comune un secondo campanile sul lato opposto della facciata. E pazienza se per completare i lavori fu necessario abbattere il fianco sinistro della chiesa: per i canonici era più importante salire sul “loro” campanile. Chissà quante risate si saranno fatte i monaci quando guardavano i loro vicini dall’alto del “loro” campanile!

I benedettini risero meno quando alla fine del Quattrocento, accusati di cattivi costumi, furono costretti a sloggiare. I chiostri di Sant’Ambrogio furono affidati in commenda al cardinale Ascanio Sforza: uomo colto e raffinato, fratello del duca Ludovico il Moro, l’abate Ascanio affidò la ristrutturazione di quegli edifici religiosi all’architetto Donato Bramante, al cui stile dobbiamo la linea sublime dei capitelli a due ordini, nonché le raffinate logge in pietra e in cotto. Il cardinale assegnò questi spazi ai cistercensi di Chiaravalle, che vi abitarono fino all’arrivo degli eserciti francesi del generale Bonaparte: l’edificio, ora demaniale, divenne un ospedale militare. A tale uso continuò ad essere destinato fino agli inizi degli anni Trenta quando vi fu trasferita l’Università Cattolica. Questa però è un’altra storia che vi racconterò in un altro post….

 

La strage di piazza Fontana e le sue ombre sul presente

Lo sciopero generale di oggi cade nello stesso giorno in cui, quarantacinque anni fa, si consumò la strage di piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969.  Una bomba, piazzata nella sede della Banca dell’Agricoltura, scoppiò alle ore 16.37 di un venerdì. I morti furono 16, i feriti 90.  Massimo Mazzucco, uno dei tanti testimoni che si trovavano nelle vicinanze, ha descritto così quegli istanti drammatici:

 

Il 12 Dicembre del 1969 ero un ragazzino, e verso le 4.30 del pomeriggio ero chinato sul mio motorino, in un garage di via Larga, tutto intento a limare i condotti del carburatore per farlo “andare di più”. Ad un certo punto ho sentito un tonfo sordo, forte, opaco, che ha scosso l’aria e i vetri dappertutto. Nel giro di tre minuti c’era gente che correva e urlava da tutte le parti. Sono uscito nel buio (a Milano, d’inverno, a quell’ora è già notte) e mi sono unito a tutti quelli che confluivano come automi verso piazza Fontana, dalla parte opposta della strada. Sono però riuscito ad arrivare solo fino all’angolo della piazza, e tutto era già bloccato. Dappertutto arrivavano ambulanze, carri pompieri e auto della polizia, e dopo pochi minuti la piazza veniva illuminata a giorno da potenti riflettori, come se fosse un set cinematografico a 360 gradi.

Giravano mille voci, ma nessuno capiva bene cosa fosse successo. C’era chi diceva… “l’è stada ‘na bumba”, l’altro che rispondeva “ma che bumba, pirla, l’è sciupada la caldaia del gas”, e il terzo “la caldaia del gas? Ma t’è vist che bùs che l’ha fà de sòta?” La gente urlava, le sirene urlavano, i vigili urlavano, i feriti urlavano. Eravamo tutti ipnotizzati, confusi, senza punti di riferimento“.

Oggi il Paese sta vivendo gravi tensioni sociali: ai problemi legati alla mancanza di riforme strutturali nel sistema politico amministrativo, si aggiunge la grande piaga della disoccupazione dovuta a una crisi economica devastante. Le manifestazioni dei sindacati, contraddistinte in alcune città da attacchi dei manifestanti e cariche della polizia, fanno pensare a quei lunghi anni Settanta segnati da innumerevoli lutti e violenze.

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Foto scattata da Paolo Pedrizzetti il 14 marzo 1977: l’estremista Memeo punta la pistola contro la polizia

Non rifarò la storia degli innumerevoli processi che furono istruiti per trovare i colpevoli della strage di piazza Fontana. Da storico mi preme accennare brevemente allo stato della città in quegli anni drammatici. Milano era dominata da un notevole disordine sociale. I fascisti e le frange rivoluzionarie della sinistra estrema si opponevano alle forze dell’ordine in un clima di guerriglia continua. Il sabato era giorno di cortei e manifestazioni in cui i cittadini avevano paura. Si usciva di casa malvolentieri. Gli scontri erano continui e spesso ci scappava il morto. Per chi li ha vissuti furono anni orribili.

Da quel 12 dicembre 1969 e per più di un decennio la mala pianta del terrorismo insanguinò l’Italia spegnendo le vite di giornalisti, uomini delle forze dell’ordine, professori, magistrati la cui unica colpa era di aver difeso lo Stato democratico.

Fortunatamente, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, posso dire di non aver vissuto quegli anni. Eppure, se le cose non migliorano in Italia e in Europa, c’è il rischio che quella stagione si ripresenti in tutta la sua violenza.

Certo, crollato da più di vent’anni il Muro di Berlino, le ideologie comuniste non sono più il punto di riferimento dei giovani. Il grande problema dell’Europa è la mancanza di lavoro che colpisce ormai una larga fascia della popolazione. In Italia la situazione è ancor più drammatica perché i disoccupati sono in numero esponenziale. Se nei prossimi mesi l’economia italiana non si rimetterà in moto, il Paese non solo imboccherà la strada del declino (come ha detto il premier Renzi), ma dovrà lottare per la sua stessa esistenza.

Macroregioni e Regioni: pilastri del buongoverno in una riforma federale

Recentemente il ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, ha proposto di ridurre il numero delle regioni portandole a 11. Tale riforma viene caldeggiata da una parte dei democratici per ora apparentemente minoritaria. Difatti, oltre a Galletti, non sono molti ad essersi schierati a sostegno di questa proposta. L’unico ad avergli fatto eco è stato il neogovernatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. A far discutere è stata in particolare l’idea di accorpare la Regione Emilia Romagna con la Toscana dando vita ad un’unica macroregione tosco emiliana. Un’idea certamente originale, che può avere una sua giustificazione nella storia peculiare di quei territori e nello stile di vita degli abitanti.

Galletti e Bonaccini
Il ministro dell’ambiente Galletti e il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini (da Il Resto del Carlino)

Per il resto l’accorpamento interesserebbe almeno 15 delle 20 regioni esistenti. Resterebbero invariate, oltre alle isole, Lombardia, Puglia e Campania. Troveremmo invece quali “macroregioni”, oltre ad Emilia Romagna-Toscana, Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta; Friuli Venezia Giulia-Veneto-Trentino Alto Adige; Umbria-Lazio; Marche-Abruzzo-Molise; Basilicata-Calabria.

La fusione delle Regioni rivela una concezione sostanzialmente estranea alle ragioni dell’autonomia: si propone di modificare dall’alto, con provvedimenti decisi a tavolino, l’assetto di enti territoriali la cui nascita è in molti casi antecedente all’attuale ordinamento repubblicano. Penso ad esempio al Trentino Alto Adige-Sud Tirol o alla Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste. Cambiamenti nella fisionomia di questi territori non possono essere decisi in via unilaterale dal Parlamento perché le autonomie speciali vennero riconosciute alla fine della guerra con veri e propri trattati di diritto internazionale.

La proposta di costituire le macroregioni accorpando le regioni esistenti non è nuova. La Fondazione Agnelli elaborò nel 1993 un progetto analogo che proponeva 12 regioni. L’unico ad avere introdotto il tema delle macroregioni coniugando l’esigenza della funzionalità amministrativa con le ragioni dell’autonomia e dell’autogoverno è stato però Gianfranco Miglio. Nel suo modello, presentato per la prima volta nel 1994, la riforma degli enti locali si accompagnava a una riscrittura completa della Costituzione in senso federale. Oltre all’abolizione delle province, era proposta la conservazione delle Regioni esistenti che, per un migliore governo del territorio, avrebbero formato tre o quattro macroregioni disegnate secondo criteri afferenti alla geografia economica: una macroregione individuata nella Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna); una nel Centro Italia (Toscana, Umbria, Marche, Lazio) e una nel Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Le 5 Regioni a Statuto speciale sarebbero state salvaguardate. Se vuoi saperne di più, ho trattato questo tema nell’articolo Le tre Repubbliche di Miglio.

Macroregione alpina

Il progetto migliano rivela in larga parte la sua attualità. Un’area rilevante della macroregione padana è stata riconosciuta dall’Unione Europea come parte integrante di una macroregione alpina estesa su un territorio di 450 mila chilometri quadrati comprendente 46 Regioni appartenenti a sette Stati diversi (Francia, Italia, Svizzera, Austria, Slovenia, Germania, Liechtenstein). Le Regioni italiane coinvolte nella macroregione alpina (EUSALP) sono cinque: Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia. A queste si aggiungono le Province autonome di Trento e Bolzano. In base all’accordo di Grenoble, firmato il 18 ottobre 2013, la macroregione alpina sarà oggetto di specifiche politiche europee: le Regioni potranno individuare e finanziare interventi comuni nelle materie dell’ambiente, delle infrastrutture, nonché delle politiche economiche e sociali. La costituzione della macroregione alpina si pone sullo stesso piano di analoghe esperienze portate avanti dall’Unione europea verso territori contraddistinti da lineamenti culturali e geofisici abbastanza precisi: è il caso della macroregione danubiana o della macroregione del Baltico.

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L’Italia formata da 9 enti territoriali: 4 Macroregioni e 5 Regioni a Statuto Speciale

Una macroregione padano alpina (costituita dall’unione di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) potrebbe essere integrata in un progetto di riforma federale teso non solo a conservare le Regioni a Statuto Speciale ma anche ad individuare le macroregioni sulla base dell’autonomia finanziaria, delle dinamiche geo-economiche, dei caratteri geofisici e soprattutto dei peculiari lineamenti storico culturali risalenti al periodo preunitario.

La macroregione tosco emiliana proposta da Galletti e Bonaccini potrebbe essere una scelta felice a patto che sia integrata in una più ampia riforma federale che preveda, oltre alla macroregione padano alpina, una macroregione del Centro Italia (composta da Marche, Umbria e Lazio e coincidente in via tendenziale con la parte di territorio rimasta più a lungo nello Stato pontificio) e una macroregione del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria) ricalcata sulla parte continentale dell’antico Regno delle due Sicilie.

Le Regioni non dovrebbero scomparire. Ad esse spetterebbe l’amministrazione del territorio nelle materie di competenza macroregionale; inoltre i Presidenti delle Regioni, in quanto membri del Direttorio della macroregione, parteciperebbero direttamente a un esecutivo presieduto dal governatore della macroregione eletto direttamente dai cittadini.

Seguendo il modello di Costituzione di Miglio, si potrebbe estendere la forma direttoriale al governo federale che, presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini italiani, sarebbe composto dai Governatori delle quattro macroregioni (padano alpina, tosco-emiliana, Centro Italia, Sud Italia) e da un Presidente a turno annuale di Regione a Statuto Speciale.

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 
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L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.

Ricordo di Nicola Raponi

Il 26 novembre 2007 moriva a Milano il professor Nicola Raponi, uno dei maggiori storici dell’età moderna che abbia avuto il nostro Paese. Ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta, in una grande aula al pianterreno della sede distaccata dell’Università Cattolica in via Sant’Agnese. Correva l’anno 1998. Raponi parve entrare quasi di nascosto, come se volesse sfuggire agli occhi indiscreti dei curiosi. Avvolto in un cappotto scuro, si recò con passo deciso verso la cattedra che si trovava in fondo all’aula, nella parte opposta rispetto all’ingresso; vi prese posto, toccò il microfono con l’indice della mano per accertarsi che gli altoparlanti fossero in funzione, tirò fuori dalla borsa i suoi quaderni fitti di note e, dopo aver dato un’occhiata al pubblico – forse per misurare il numero degli studenti – iniziò la lezione.
Il professore spiegava con una profondità di analisi che mi colpì fin dall’inizio. Il contenuto delle sue lezioni era il risultato di un paziente lavoro di scavo condotto in tanti anni di ricerche negli archivi e nelle biblioteche.
Raponi aveva un aspetto inconfondibile: i capelli, accuratamente pettinati, erano  divisi in due parti; qualche volta terminavano con un ciuffo che, scendendo sulla fronte, pareva conferire alla persona una certa qual aura di giovinezza. La voce, tenue ma al contempo lievemente roca, mi colpì per il timbro originale, non molto diverso da quello del presentatore Corrado Mantoni. La cadenza nel parlato rivelava le origini marchigiane, ma solo a tratti e mai in modo troppo marcato. I lineamenti del viso mi ricordavano quelli dell’attore Walter Matthau.
A quel tempo ero un giovane studente iscritto nell’ateneo di Largo Gemelli. Frequentavo il secondo anno del corso in Lettere moderne nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Quando ascoltai Raponi per la prima volta, rimasi colpito dalla semplicità dell’esposizione, dall’umiltà e dalla cura con cui esponeva le questioni rinviando sempre alle fonti storiche. Ricordo che uno dei consigli che dava agli allievi era di studiare attentamente le carte lasciate da una persona o prodotte da un’istituzione; ci sollecitava a frequentare le biblioteche e gli archivi: “noi dobbiamo” – diceva a lezione –  “far rivivere il documento… un po’ come la favola della bella addormentata”.
Le lezioni terminavano quasi sempre in ritardo. Squillava la campana: il professore, immerso nelle sue riflessioni, si accingeva a concludere; Raponi continuava a tessere pazientemente i fili del ragionamento in uno sforzo di affinamento dei concetti, chiarendo le questioni oggetto di analisi. Allora ci domandava: “E’ suonata la campana?”, quasi volesse avere conferma che la lezione fosse finita.

La storia era la disciplina che mi aveva sempre appassionato grandemente. Verso la fine dei miei studi, quando avevo ormai superato quasi tutti gli esami, mi recai quindi da Raponi per chiedergli un argomento su cui impostare la tesi di laurea.

Quando gli espressi il desiderio di scrivere la tesi sotto la sua guida scientifica, mi pose dinanzi a una scelta. Avrei potuto dedicarmi a un tema afferente alla storia delle mentalità o alla storia delle istituzioni. Nel primo caso mi disse che il lavoro non sarebbe stato particolarmente difficile. Nel secondo invece si richiedeva allo studente un sforzo maggiore perché occorreva prendere in esame le leggi e le varie normative prodotte da una istituzione pubblica e verificare poi in archivio, mediante lo spoglio dei documenti, le reali dinamiche, la prassi effettiva dell’ente amministrativo preso in esame. Decisi di percorrere questa seconda strada. Mi buttai a corpo morto nella ricerca, che verteva sullo studio delle vice prefetture nel dipartimento dell’Agogna (Novara) negli anni della repubblica e regno d’Italia (1802-1814).

Fu in quell’occasione che frequentai per la prima volta gli archivi. Quando mi trovai dinanzi alle carte dell’epoca provai un certo smarrimento: le grafie mi parevano illeggibili e spesso contenevano informazioni che rimandavano a leggi, decreti, regolamenti, protocolli di cui io, inesperto studente alle prime armi, non conoscevo quasi nulla. Solo dopo aver preso in esame svariati documenti manoscritti, il mio occhio si abituò alle varie grafie sette-ottocentesche. La determinazione, la tenacia, la pazienza ma soprattutto la passione sono doti fondamentali in qualsiasi lavoro.

Il mercoledì pomeriggio mi recavo nell’ufficio di Raponi, il quale dedicava le (lunghe) ore del ricevimento prima agli studenti, quindi ai laureandi, poi ai dottorandi e colleghi. Quando arrivava il mio turno – il che avveniva quasi sempre nel tardo pomeriggio – gli chiedevo informazioni, gli manifestavo i miei dubbi sul contenuto dei documenti che andavo studiando. Ricordo che mi sembrava di entrare in confessionale. Mentre gli esponevo lo stato delle ricerche, vedevo che il professore mi ascoltava con attenzione assorto nei suoi pensieri. Lui non mi dava risposte definitive. Credo che lo facesse di proposito, forse perché intendeva spingermi a studiare con maggiore profondità oppure perché desiderava mettere alla prova la mia preparazione sull’argomento. I colloqui erano lunghissimi – lo sanno bene i colleghi e gli ex studenti – perché a lui premeva affrontare le questioni con attenzione. Entravo nel suo studio, lasciavo socchiusa la porta come chiedeva quasi sempre di fare, mi sedevo di fronte a lui, nella parte opposta di uno scrittoio occupato in gran parte da lunghe file di libri. 

Quando gli mostravo copie di documenti che facevano nuova luce su un argomento che gli stava a cuore, i suoi occhi brillavano e si accendeva di entusiasmo. In quei momenti sembrava che fosse tornato a vestire il camice dell’archivista, la professione che aveva esercitato con passione per tanti anni affiancandola a quelle di storico e di insegnante.

Le colonne di San Lorenzo tra passato e presente

Le colonne di San Lorenzo costituiscono un punto di ritrovo per centinaia di giovani milanesi. Di sera la piazza davanti alla chiesa è gremita di gente. Ci si dà appuntamento lì, tra una colonna e l’altra. Sono in gran parte studenti, ma trovi anche persone di mezza età dai cui volti traspare il desiderio di lasciarsi dietro alle spalle le preoccupazioni di una giornata di lavoro (o di non lavoro, visti i tempi) abbandonandosi al divertimento in compagnia degli amici e di una birra.
            C’è però qualcosa di speciale in quella piazza così gremita di giovani, un’atmosfera che, in fondo, si respira solo nella zona Ticinese. E’ un’anima popolare, da bassifondi parigini che continua a trasparire qui. Nei secoli passati proliferavano botteghe, laboratori artigianali e osterie. Ad esempio, nel parco della Vetra lavoravano i conciatori di pelli. Era anche un quartiere malfamato: vi abitavano delinquenti e assassini se è vero, come è vero, che i vecchi milanesi dicevano: A la Vedra no ghe va che i colzon de fustagn: alla Vetra vanno soltanto i calzoni di fustagno (ossia i ladri). Non a caso, proprio dietro le colonne e la basilica di San Lorenzo si ergeva un patibolo ove venivano impiccati i facinorosi della zona.

Ma il quartiere di Porta Ticinese era anche ricco di osterie. Lo stemma del quartiere, il famoso sgabello a tre gambe, riprendeva probabilmente l’insegna dell’osteria dei Trii Scagn, situata un tempo nei pressi del Carrobbio. E questa, per chi ancora nutrisse dei dubbi, è un’altra prova del fatto che nel vecchio ‘sestiere’ di Porta Ticinese abitavano in prevalenza artigiani e locandieri, ossia persone del popolo.

Durante il Medioevo e per tutta la dominazione spagnola, nel corso principale – il corso di Porta Ticinese – veniva organizzata la processione dei Magi con attori presi spesso dal popolino. Quelle erano ricorrenze che richiamavano persone di ogni genere, comprese le teste calde che ne approfittavano per menar le mani. Gli Austriaci, quando conquistarono il Milanese in seguito alla guerra di successione spagnola, si affrettarono – da buoni amanti dell’ordine quali erano – ad abolire quella festa che, a loro avviso, faceva solo confusione.
Io credo però che la zona di Porta Ticinese conservi ancora oggi quell’anima un po’ anarchica che ha sempre posseduto nel corso dei secoli. Alle colonne di San Lorenzo ti capita di trovare di tutto. Non avventuratevi in bicicletta la mattina successiva al venerdì o al sabato sera: rischiate di forare a causa di qualche scheggia o frammento di bottiglia.

Porta Romana e le slittate del peccato sul Monte Tabor

A chi capiti oggi di attraversare piazza delle Medaglie d’Oro non può sfuggire la porta maestosa che segnava anticamente il confine della città di Milano con la campagna in direzione sud-sud est. A onor del vero un certo paesaggio agreste era presente anche all’interno dei bastioni spagnoli, la cinta muraria costruita a partire dal 1545 dal governatore di Milano Ferrante Gonzaga. Difatti la metropoli ambrosiana era articolata un tempo in almeno due zone: la prima, compresa all’interno della cerchia del naviglio e della cinta muraria di epoca medievale, era caratterizzata da una fitta concentrazione di case divise tra loro da vicoli stretti e tortuosi. Al di là del naviglio era invece la seconda zona, contraddistinta dai borghi che traevano la loro denominazione dalle rispettive porte medievali da cui si dipartivano i principali assi viari. Esistevano quindi sei borghi: borgo di Porta Romana, borgo di Porta Ticinese, borgo di Porta Vercellina…e così via. In queste zone le abitazioni – più diradate, disposte per lo più lungo i corsi principali –  costituivano un tratto secondario, essendo nettamente predominante un paesaggio agricolo che si estendeva fino ai bastioni.
L’arco monumentale di Porta Romana venne innalzato nel 1598 su disegno dell’architetto Aurelio Trezzi per festeggiare le nozze tra la principessa Margherita d’Austria e il re di Spagna Filippo III Asburgo. Difatti sul momumento è incisa la figura di una perla rappresentata all’interno della conchiglia madre: incisa nella facciata dell’arco rivolta un tempo verso la campagna (oggi verso Corso Lodi), la perla denotava il significato celebrativo del monumento. Difatti “margarita” presso gli antichi romani significava “perla”, il che consentiva ai dotti milanesi, ai turisti e ai viandanti di tornare con il pensiero alla regina asburgica passata per Milano alla fine del Cinquecento. Varrà la pena ricordare che il matrimonio tra Margherita e Filippo fu particolarmente gradito agli esponenti della patriziato e della nobiltà milanese, che dedicarono alla giovane sposa il primo teatro stabile di corte nel palazzo ducale: si trattava del salone “Margherita” che andò distrutto nel 1708 a causa di un incendio.
Sul lato sinistro della porta, all’incirca nel punto ove oggi si trova il centro ricreativo “TermeMilano”, era un tempo un’altura artificiale eretta nel corso del XVIII secolo con sassi e terriccio tolti dai bastioni ormai caduti in disuso. I milanesi la chiamavano arditamente “Monte Tabor”, in riferimento al monte della trasfigurazione di Gesù Cristo. Su quest’altura, che si trovava pressappoco allo stesso livello dei bastioni, venne aperta un’osteria assai amata dai milanesi. Il Porta nella poesia On Funeral (El Miserere) non mancò di ricordarla nei discorsi tenuti da due sacerdoti amanti delle osterie, che fecero rimare la locanda del Monte Tabor con il termine latineggiante “dealbabor”. Scriveva il Porta:
“In seguet fan el nomm
A paricc ostarij
In dove gh’è vin bon, ost galantomm,
e mejor compagnij.
Vun loda l’ostaria de la Nos,
l’olter el Monte – Tabor,
e poeù tracc a dò vos
Domine…asperges me…
Hyssopo,…et super nivem dealbabor”.
Traduzione in lingua italiana:
“In seguito fanno il nome
Di parecchie osterie
Dove c’è vino buono, oste galantuomo,
e migliori compagnie.
Uno loda l’osteria della Noce,
l’altro il Monte Tabor,
e poi tracch a due voci:
Signoremi aspergerai
Con hyssopo [pianta aromatica usata nelle cerimonie sacre di purificazione]
e sarò candido come neve”.
[Carlo Porta, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori 1989, pag.481]
Nel primo Ottocento erano molti i milanesi che amavano recarsi all’osteria del Monte Tabor. Si saliva in cima a quella curiosa altura, il cui terreno digradava in una ripida discesa verso la porta monumentale. Il Rovani, nel romanzo Cento anni, ricordava il curioso passatempo cui erano soliti dedicarsi gli abitanti più arditi del quartiere. Difatti la discesa del Monte Tabor serviva magnificamente al gioco delle slitte “alla russa”, un evento che attirò ben presto l’attenzione di molti milanesi i quali finirono per recarsi in Porta Romana al solo fine di assistere o prender parte a questi divertimenti. Alle classiche passeggiate in via Marina o sui ridenti bastioni di Porta Orientale (oggi bastioni di Porta Venezia) i cittadini preferirono ben presto recarsi in Porta Romana…sul Monte Tabor.
Scriveva il Rovani nel suo romanzo, al capitolo XVII del libro XIX:
Una quarantina d’anni sono, il corso festivo del popolo milanese, disertato dall’antica via Marina, e poscia dai giardini e dal bastione di Porta Orientale [Porta Venezia], erasi ridotto a porta Romana. Pare che questa deviazione, che infranse per cinque o sei anni la secolare consuetudine, sia stata occasionata da un tale che, avendo viaggiato in Russia, introdusse nell’osteria del Monte Tabor, posta ai fianchi della porta Romana, il divertimento della slitta. Costui, traendo profitto degli accidenti della giacitura di quella parte di bastione che si venne col tempo addossando ed innalzando sulle vetuste mura di Milano, vi praticò una discesa precipitosa di centocinquanta passi, pavimentata in legno liscio con solchi paralleli, in cui scorrevano due ruotelle in ferro portanti una seggiola per una sola persona, od anche per due, quando l’una avesse caro di sedere in grembo all’altra.
Questo divertimento, per quanto fosse puerile, come dicevano gli uomini gravi e non più giovani d’allora, fu potente a far cambiar direzione a centomila gambe. Fosse la novità della cosa; fosse che (siccome si usa nelle feste da ballo che il cavaliere si piglia seco la dama o la damigella, e anche senza conoscerla, dalla usanza tiene la sanatoria di danzare con essa e di abbracciarla a suon di musica) fosse dunque che i giovinotti e i cacciatori d’amore avessero il permesso di tirarsi in grembo le signore più o meno custodite, e che alle fanciulle e alle signore non dispiacesse niente affatto di sedere a quel modo, il fatto sta che l’insolito gioco ebbe un successo di entusiasmo e di delirio. Nelle giornate di giugno il concorso cominciava all’alba e finiva a mezzanotte; cosa che del resto si comprende facilmente quando si sappia che con soli cinquanta centesimi si pagava l’ingresso e tre slitte.
[Giuseppe Rovani, Cento Anni, a cura di Beniamino Gutierrez, Milano, Rizzoli 1935, vol.II, pp.547-548]
Il racconto del Rovani non era per nulla romanzato. Il canonico Luigi Mantovani, il 18 giugno 1818, ricordava nel suo diario la folla di milanesi che si recava sul posto per assistere al gioco delle slitte “alla russa” cui era possibile assistere presso l’osteria del Monte Tabor sul bastione attaccato a Porta Romana. Il sacerdote ricordava che questo passatempo attirava un tale numero di partecipanti da risultare ai suoi occhi addirittura scandoloso. Assai accorto fu il gestore di questa iniziativa, che era probabilmente il padrone dell’osteria. Questi seppe sfruttarla abilmente a fini commerciali ricavando una notevole fonte di ricchezza. A lui spettava l’esclusiva gestione del gioco, facendo pagare agli avventori un biglietto di 25 centesimi per tre discese. Lasciamo la parola al canonico Mantovani:
Egli era già più di un mese che a fianchi del dazio del Porta Romana nella osteria fu fatta una discesa precipitosa non più di 150 passi, suolata d’asse lisce con alcune fenditure, in cui penetrano alcune piccole rotelle di ferro, su cui trovasi una piccola sediola per una sola persona, o per due, ma l’una seduta in grembo all’altra. Qui intervengono i cittadini a fare le slittate a somiglianza di quelle che si fanno in Russia sul ghiaccio. A questa puerilità concorre per essere spettatrice ed esecutrice una infinità di persone dalla prima alba sino verso la mezzanotte. Non è credibile il concorso di carrozze, di nobiltà, dame, gioventù, vecchi, pagando 25 centesimi all’ingresso da scontarsi o con tre corse o con qualche acqua o bicchier di vino. Non avrei mai creduta la popolazione nostra sì sventata di testa e irriflessiva di correre a turma a questo gioco, o per veder questo spettacolo. L’inventore guadagna di netto ogni giorno un coll’altro L.1.000 di Milano. La polizia ha messo in ogni legge positiva, che non possi più come in passato andare scendendo un uomo con donna seduta in grembo, come finora si è fatto. Chi misuri lo spazio di tempo di tali slittate, in tempo di 7 minuti furono eseguite 32 discese. Finora non si rallenta il concorso”.
[Luigi Mantovani, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto Storico per l’età moderna e contemporanea, 1994, vol.V., pag.94]
A quegli spudorati organizzatori delle slitte alla russa non può che andare il nostro plauso ammirato. Fecero divertire nelle calure estive i giovani milanesi, i quali accorsero in gran numero attirati dalla facilità con cui, grazie a quel passatempo, era possibile stringere tra le braccia i corpi suadenti di ragazze e donne (più o meno custodite) desiderose solo di divertirsi e di passare un po’ di tempo in modo spensierato. In fondo aveva ragione il Rovani quando concludeva che «quando uno, nel caso di metter fuori una ditta, sceglie per socio il peccato, è quasi sempre sicuro di far fortuna».

Cattaneo e la guida di Milano che non vide mai la luce

Carlo Cattaneo scrisse le celebri Notizie naturali e civili su la Lombardiain occasione del sesto congresso degli scienziati italiani che si tenne a Milano nel settembre 1844. Questo evento coinvolse – com’è noto – larga parte della società lombarda. Parallelamente all’attività di Cattaneo varrà la pena ricordare che furono compilati – a cura dello storico risorgimentale Cesare Cantù – i due volumi intitolati Milano e il suo territorio: vi furono pubblicati testi afferenti alla storia, alla religiosità, alla statistica, all’istruzione, alla sanità, alla vita sociale di Milano ad  opera di eminenti personalità quali il prefetto della Biblioteca Ambrosiana, l’abate Bartolomeo Catena, Giuseppe Sacchi, il nobile Pompeo Litta (noto per le ricerche erudite che andava effettuando sulle famiglie nobili italiane), Giovanni Labus, il professor Achille Mauri e lo stesso Cantù.
Tra le carte mai pubblicate che Carlo Catttaneo scrisse per quell’evento ve ne sono alcune di notevole interesse. Il contenuto di questi documenti, rielaborato ed organicamente ultimato, avrebbe costituito con ogni probabilità una Guida di Milano per i visitatori che fossero giunti in città in occasione del congresso.
In questi manoscritti, che si trovano nell’archivio Cattaneo conservato presso le Civiche Raccolte Storiche del Museo del Risorgimento, la città era presa in esame da un punto di vista geo-economico e storico artistico. 

Particolarmente interessanti le considerazioni introduttive, ove largo spazio era riservato alla descrizione geografica.

Il territorio su cui sorge Milano è un vasto rettangolo il cui lato settentrionale vien formato dalla catena dell’Alpi Leponzie e Retiche; l’occidentale dal Lago Maggiore e quindi dal Ticino; l’orientale dal Lago Lario (Como) e quindi dall’Adda, il meridionale dal Po. Questo territorio dirupato e orrido sotto l’Alpi, viene lentamente ad ingentilirsi in men erte montagne, poi in colline amenissime, quindi in pianure asciutte e vinifere, e finalmente in campi quasi immersi nell’acque che li fecondano.

A gradi 26,51 di longitudine 45,27,51 di latitudine, laddove il piano comincia a farsi umido ed irrigato, s’innalza Milano. Talché uscendo dalle porte rivolte a Mezzodì si ritrova tosto un meraviglioso intreccio di canali irrigatorj; mentre da settentrione a stento si trova un prato o un canale.

Seguivano importanti considerazioni sui canali navigabili che solcavano la città:

Lontana da ogni fiume navigabile Milano sarebbe male atta al commercio, qualora l’industria (operosità) degli abitatori non avesse condotto fino in città due canali navigabili l’uno tratto dall’Adda (il Naviglio Martesana), l’altro dal Ticino (il Naviglio Grande). Parte delle acque in tal modo raccolte va ad irrigare i terreni; parte forma un terzo canale che congiunge Milano con Pavia (il Naviglio Pavese) e apre, mercé del Po, una via all’Adriatico.

Il terreno è per natura e per arte (lavoro) fertilissimo. L’aria bastevolmente pura; se non che presso la città si risente della soverchia umidità della adjcenti campagne.

In margine Cattaneo formulava un giudizio significativo sulla mentalità pratica, sull’indole essenzialmente lavorativa dei milanesi, nati più per operare nella società che per ‘disquisire dei massimi sistemi’. Si riportano tali considerazioni, ove risultava evidente che la cultura milanese, per lo meno negli ultimi due secoli, era andata legandosi strettamente ai bisogni della società. Il castello inaccessibile di una “insetata verbosità” fine a se stessa, diffuso in molte città italiane, non apparteneva a Milano.
In confronto alle altre città d’Italia Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanee del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità.
Notevoli le notizie topografiche su Milano, che Cattaneo descriveva richiamandosi all’immagine dei due anelli che cingevano la città: il primo era costituito dal Naviglio Interno, che venne scavato dai milanesi al di fuori delle antiche mura medievali. Questo canale, chiuso tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il 1929/30, collegava il Naviglio Martesana (che scendeva da nord est) con i navigli grande e pavese (che percorrevano la bassa pianura in direzione sud-sud ovest). 

Il secondo anello era invece formato dai bastioni spagnoli, i cui frammenti sono in parte tuttora visibili. Seguiva la descrizione delle Porte milanesi, alcune delle quali esistono ancora oggi. Ma lasciamo la parola a Cattaneo:

I bastioni esternamente e internamente il naviglio formano a Milano un doppio recinto quasi circolare. Il naviglio è una fossa scavata appiè delle antiche mura in occasione dell’assedio del Barbarossa ridotta ora a canal navigabile in cui immettonsi le acque de’ due navigli d’Adda e di Ticino. E nel suo giro comprende la città propriamente detta. I bastioni che si estendono più vastamente…furon fabbricati nel 1549 sotto Carlo V per ordine del governatore Ferrante Gonzaga, giusta l’architettura militare di quei tempi. Fra essi e il naviglio si comprendono i propriamente detti “borghi”. Al di fuori rasente i bastioni si aggira la testé compiuta strada di circonvallazione che offre molte miglia di ombroso passeggio. I bastioni vengono interrotti da undici porte. La Porta Tosa volta a oriente; alquanto verso Nord l’attigua Porta Orientale; e così via: a Nord Est la Nuova; a Nord la Comasina (Porta Garibaldi); a Nord Ovest la Tenaglia e il Portello (oggi Parco Sempione, dietro il Castello Sforzesco); ad Ovest la Vercellina; a Sud Ovest la Ticinese; a Sud la Lodovica e la Vigentina, a Sud Est la Romana.

L’Orientale, la Nuova, la Comasina, la Vercellina, la Ticinese, la Romana sono le principali. Anticamente davano il nome ai quartieri della città e scompartimento alle truppe civiche.
Nel centro di essa, ma alquanto verso oriente, sorge il Duomo; da cui quasi come raggi si dipartono i corsi che guidano a ciascuna Porta, tortuosi ed angusti nell’interno della città, ma spaziosi e diritti quanto più se ne dilungano. Essi prendono il nome dalle rispettive porte.

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