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“Amo vestire, non sopporto chi si copre”

Lino Ieluzzi si racconta: “Sono cresciuto in una famiglia severa vecchio stampo. Mia mamma era una sarta e mi ha trasmesso la passione per i vestiti. Ho iniziato a lavorare presto”

Per chi proviene dal centro, via Antonio Scarpa è una delle prime strade che si incrociano sul lato destro con corso Vercelli. Siamo in una fascia della città vicinissima alla cerchia dei Bastioni, che un tempo faceva parte del Comune dei Corpi Santi, a due passi dal sestiere di Porta Vercellina. Una zona il cui paesaggio, fino all’Unità d’Italia, era dominato da campi, rogge, canali ai lati dell’antica strada verso Vercelli. All’inizio del corso si trovava l’Osteria della Berta Filava, ritrovo per cacciatori e compagnie di amici che ne apprezzavano la vicinanza alle campagne circostanti. L’area fu densamente urbanizzata nel periodo successivo e divenne – a partire dagli anni Ottanta del Novecento – uno dei quartieri più importanti della città. Oggi, corso Vercelli, con le sue vie laterali, resta un ricco quartiere di Milano, anche se negli ultimi anni ha cambiato la sua identità. 

Mercoledì entro in via Scarpa, la percorro per alcuni metri e subito vedo, sulla soglia della sua boutique, Lino Ieluzzi, con cui ho un appuntamento alle 15 per un’intervista. Due taxi sono in sosta davanti a questo negozio di notevoli dimensioni: cinque vetrine ben riconoscibili dalle eleganti tende parasole di colore verde scuro, ove risaltano i fregi dello stemma dell’azienda: “AB” (Al Bazar). Lui mi saluta con affabilità, scambiamo quattro chiacchiere con i dipendenti della sua boutique. Vedo alcuni clienti aggirarsi per questi ambienti eleganti, tra raffinate scrivanie in legno, tavolini, mensole, armadi di squisita fattura. Ieluzzi mi accompagna in un piccolo spazio nel cortile sul retro: ci sediamo ai lati di un semplice tavolino da giardino a forma circolare. Qui ha luogo l’intervista. 

Lino Ieluzzi in una foto recente tratta dal suo account Instagram

Chi è Pasquale Ieluzzi conosciuto come “Lino Ieluzzi”,  insignito il 27 dicembre 2010 del titolo di  “Commendatore” dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano su iniziativa del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?  Classe 1945, Ieluzzi con la sua boutique “Al Bazar” è da tempo una istituzione nella Milano dell’alta moda uomo. Intervistarlo mi consente di accedere alla preziosa testimonianza di un imprenditore che si è fatto da sé, si è costruito una posizione nel commercio di vestiti e questo unicamente grazie alla passione, alla cura meticolosa nel lavoro, nel lanciare il suo stile di abbigliamento.

In che tipo di famiglia sei cresciuto? Quale mestiere facevano i tuoi genitori?

“Sono nato in una famiglia vecchio stampo di origini pugliesi. I miei genitori abitavano a Baggio. Io, mio fratello e mia sorella siamo cresciuti in un ambiente povero ma dignitoso, in una famiglia in cui vigevano le dure regole di mio padre, che lavorava nel corpo della guardia di finanza. A lui dovevamo sempre dare del ‘voi’ quando ci rivolgevamo alla sua persona.  Mia madre invece lavorava in casa, faceva la sarta. Ero certamente più legato a lei, che mi ha trasmesso il gusto per il vestire”.  

Come sono stati gli anni della tua adolescenza? Qual è stato il tuo percorso di studi prima di lavorare?

“Ho iniziato a lavorare presto, prima in un negozio di mobili a Baggio, poi in una ditta di traslochi. Ricordo bene quando che mi chiamavano per smontare e montare mobili. Era un modo per guadagnare qualcosina. Certo, un periodo minimo di formazione ho dovuto farlo: frequentai le scuole serali. Avevo una gran voglia di riuscire, di farcela nella vita, di guadagnarmi una posizione che mi potesse consentire di vivere bene. Era la voglia di farcela a spingermi in avanti. Non mi facevo problemi nel tentare un lavoro che attirava la mia curiosità: mi mettevo in gioco. Ho seguito anche un corso di parrucchieri da donna in corso Vercelli. Non stavo mai con le mani in mano, come si dice. Tieni presente che provenivo da una famiglia che non navigava nell’oro: i miei genitori facevano sacrifici per mantenerci. Sentivo l’esigenza di uscire dalla povertà, seppur dignitosa, in cui ci trovavamo”. 

Quando hai capito che il commercio nell’alta moda uomo sarebbe stata la tua strada?

“La moda mi è sempre piaciuta. Come ti dicevo, mia mamma era sarta. Con i primi soldi che feci con i lavoretti di cui ti parlavo, iniziai ad acquistare grandi stock di abiti e li vendevo fuori dalle scuole e dalle università. Gli anni Sessanta sono stati per me un periodo di continua sperimentazione: ho lavorato in un parrucchiere da donna, poi in una ditta di orologi petrolio, finché sono stato impiegato come commesso in un negozio di abbigliamento uomo, qui, in via Scarpa”. 

Ieluzzi mi accompagna in uno dei molti ambienti della sua boutique e mi dice:

Lino Ieluzzi in una foto dei primi anni Settanta

“Vedi questo spazio?  Qui si trovava il negozio di appena 20 metri quadri, con una sola vetrina sulla via, in cui iniziai a lavorare come commesso. Allora – anni Sessanta e primi Settanta – era una semplice jeanseria. I titolari erano una famiglia romagnola: eravamo in due a lavorare come commessi. Vendevamo, oltre ai jeans, camicie indiane, giacche usate. Era un mondo sideralmente opposto rispetto a quello che sarebbe arrivato di lì a poco. La gente si vestiva in modo semplice, l’uomo era completamente dimenticato nella cura del vestire. Dominava la cultura hippie, il culto della libertà interiore senza regole,  le simpatie di tanti giovani andavano verso forme di egalitarismo e di comunitarismo, per non parlare di tanti fanatici ubriacati dall’ideologia comunista o da quella fascista”.

Quelli sono stati anni difficili. La contestazione nel 1968, la bomba di piazza Fontana nel 1969 e gli anni Settanta, gli anni di Piombo con le violenze dei gruppi terroristici. Tu come li hai vissuti?

“Vero, sono stati anni controversi, di passaggio ma anche pieni di sfide e di opportunità. Quando i titolari della jeanseria si ritirarono, nel 1971, ebbi l’opportunità di proseguire nell’attività rilevando il negozio. Nel 1975 chiamai Maurizio Morazzoni, un mio caro amico d’infanzia che aveva fatto alcune esperienze sul campo e gli chiesi di entrare come socio nella società Al Bazar Srl. Fu allora che iniziò la nostra impresa in un mondo completamente nuovo: trasformammo radicalmente quel piccolo spazio di 20 metri quadrati. Da attività commerciale di jeanseria diventammo un negozio completamente diverso.

Fu un’intuizione. Capii che la moda stracciona non sarebbe durata a lungo: in quella Milano di metà anni Settanta intravedevo il profilarsi di una società nuova, fatta di uomini nuovi, che sentivo avrebbero contato moltissimo di lì a poco; una generazione di imprenditori tanto ambiziosi quanto determinati nel lavoro per conseguire il successo nell’intrapresa privata. Capii in anticipo che l’uomo, tanto smitizzato fino ad allora, sarebbe stato più ambizioso e avrebbe meritato di essere vestito con la stessa cura e attenzione ai particolari che si seguono nell’abbigliamento femminile. Abbassai la saracinesca e, quando la rialzammo, il negozio era completamente diverso: sobrio, elegante, con abiti gessati, giacche raffinate al posto delle vecchie ceste ove prima erano ammassate le semplici camicie americane. 

A guidarmi è stata la passione, la fiducia nelle mie capacità, l’ottimismo e il desiderio di costruirmi una vita fatta di benessere economico. Con il nuovo negozio iniziammo a vendere bene: stavamo conseguendo ottimi risultati, il che non passò inosservato. Il risultato fu che ben presto fummo vittima di quello che all’epoca si chiamava “esproprio proletario”: una rapina a mano armata. Però, ripeto, fatta eccezione per quella brutta pagina, ricordo con piacere e un po’ di nostalgia gli anni Settanta! Sarà che ero anch’io un’altra persona: un ragazzo giovane, bello, con tanti capelli biondi e una voglia matta di affermarmi, di farmi strada. Volevo realizzarmi in quello che avevo ormai scoperto essere il lavoro per cui mi sentivo portato: il commerciante”.

Gli anni Ottanta hanno segnato un cambiamento nei costumi degli italiani, nel loro stile di vita. I cittadini volevano dimenticare gli anni della tensione, delle sparatorie, degli estremismi di destra e di sinistra. 

Raggiunsero il successo tante aziende nella moda, nel design, nell’artigianato: il Made in Italy si affermava con le produzioni di alta qualità. Gli italiani si arricchivano, spendevano di più. Nel privato si affermava una classe di piccoli e medi imprenditori di notevole livello, determinati nella realizzazione dei loro obiettivi.

Berlusconi, ad esempio, dopo aver costruito quartieri e case residenziali di notevole eleganza immerse nel verde, negli anni Ottanta investe con profitto nella tv commerciale. Il successo imprenditoriale del Cavaliere fu clamoroso. Cosa ricordi di quegli anni per quanto riguarda il tuo lavoro?

“La gente amava vestirsi con stile. Noi abbiamo vissuto bene quel periodo. Tante persone che lavoravano nelle tv e nelle aziende di Berlusconi venivano da noi per acquistare abiti eleganti. Il Cavaliere era attentissimo alla forma, all’eleganza nel vestire. Ci teneva: per lui lavorare sulla propria immagine, sapersi presentare in modo impeccabile era un requisito fondamentale perché, diceva, ‘voi grazie alla televisione entrate nelle case degli italiani’. 

Per noi furono anni di grandi guadagni. Raggiungemmo un volume di affari tale da consentirci di ingrandire la superficie del negozio arrivando alle dimensioni attuali: questo fu possibile perché acquistammo i locali di un colorificio e di un ristorante che nel frattempo avevano cessato l’attività. L’allestimento degli spazi e l’arredamento caratteristico che si vede ancora oggi con i mobili in legno di noce di alta finitura sono interventi che feci proprio allora. 

Cosa ricordi di quella Milano? La Milano socialista di Tognoli e Pillitteri? 

Era una città in cui le persone si aiutavano, sicura di notte, in cui era possibile – per capirci – farsi una partita a pallone per le vie del centro e tornare a casa facendo l’autostop. Un altro mondo rispetto alla Milano di oggi, sconvolta da tanti reati di microcriminalità con scippi e violenze che sono all’ordine del giorno.

Arrivano poi gli anni Novanta, che segnarono una svolta nel bene e nel male. Caduto il Muro di Berlino, scoppiò il caso Tangentopoli con decine di politici arrestati e messi sotto processo. Milano viene amministrata da giunte di colore politico assai diverso rispetto a quelle che erano state protagoniste della vita cittadina fin dal dopoguerra. È la Milano di Marco Formentini (primo sindaco leghista di una grande città ad essere eletto direttamente dai cittadini nel 1993), poi di Gabriele Albertini che amministrò Milano per ben due mandati dal 1997 al 2006. Come sono stati questi anni per il tuo lavoro?

Lino Ieluzzi nella sua boutique in una foto degli anni Novanta.

“Abbiamo continuato a fare affari”.

Erano gli anni in cui l’amministrazione comunale vietava la libera circolazione di auto introducendo le “targhe alterne”; nel 1990-91 scoppiò la prima guerra del Golfo con l’aumento del prezzo del petrolio e le conseguenti ricadute nella contrazione dei consumi. In un’intervista rilasciata al “Corriere del Sera” nel 1990 sostenevi che, diversamente da altri negozianti, voi eravate riusciti ad uscirne bene e motivavi il buon andamento delle vendite con il rapporto di fiducia con la clientela. Affermavi: “le vendite nel 1990 sono state uguali all’anno passato…credo che i risultati vengono quando alla base c’è un buon servizio e una serietà nel rapporto con la clientela. Noi, per esempio, non abbiamo mai fatto e non faremo mai i saldi. Per correttezza verso chi compra sempre da noi”.

Confermo quello che dissi 35 anni fa. Mentirei tuttavia se ti dicessi che quelli sono stati anni facili. Nel 1990 una banda di criminali siciliani telefonò in negozio chiedendomi il pizzo e minacciandomi di morte. È stato un periodo difficile, in cui vissi per sette-otto mesi con la scorta che mi accompagnava in tutti i miei spostamenti, in particolar modo da casa al negozio. La questura mise sotto controllo i telefoni per intercettare le chiamate dei criminali. Tutto alla fine si risolse senza danni. Consapevoli che la polizia era sulle loro tracce, quei criminali mi lasciarono in pace. 

Il periodo tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila è stato memorabile. Anzitutto ho introdotto nuove collezioni di abiti, che hanno ulteriormente arricchito il negozio con le ormai celebri giacche colorate in doppiopetto e monopetto. 

Ricordo poi le iniziative imprenditoriali all’estero, dove iniziarono a conoscermi negli ambienti del commercio: ho venduto le mie collezioni Al Bazar nei mall in Corea del Sud, in Giappone. In Corea mi recavo mediamente due volte all’anno: rimanevo là venti giorni per controllare l’esposizione dei miei prodotti nei negozi con cui avevamo stipulato affari. In quei paesi fui accolto con tutti gli onori e mi riservarono un trattamento speciale. Ricordo che venivano a prendermi in aeroporto con un auto di lusso, come se fossi un capo di Stato. Pensa che in Corea del Sud mi fecero ottenere un permesso di poche ore per visitare una fabbrica di vestiti che aveva sede in Corea del Nord: fu un’esperienza istruttiva. 

Lino Ieluzzi in uno scatto fotografico di Scott Schumann in S. Schumann, “The Sartorialist”, 2009.

Le mie apparizioni sulle riviste di moda iniziarono ad essere numerose. Quelli furono anni in cui mi ritrassero fotografi del calibro di Scott Schumann, le cui immagini apparvero nella rivista “The Sartorialist”. 

So che abiti in centro, in zona Porta Ticinese, non molto distante da piazza XXIV maggio. Perché hai scelto questa parte della città invece della zona di corso Vercelli dove hai il negozio?

Sono molto legato alla casa in cui abito: me la sono acquistata con i guadagni di una vita. Ho scelto questa zona perché mi piace passeggiare lungo la Darsena e i Navigli. È una parte di Milano che mi è particolarmente cara: in fondo mi ricorda Parigi e il fluire della Senna”.  

Cosa pensi della zona in cui ci troviamo, il quartiere che ti ha formato come imprenditore, in cui hai mosso i primi passi e in cui sei rimasto con la tua splendida boutique?  

“Corso Vercelli era fino a quindici anni fa la seconda via più importante di Milano nel campo delle boutique di alta moda, dopo via Montenapoleone. Oggi la realtà è un po’ cambiata”. 

E via Antonio Scarpa?

“Io sono qui da più di cinquant’anni e contribuisco tuttora a mantenere elevata la qualità dell’offerta nel campo del commercio. Da alcuni anni hanno aperto altri negozi che contribuiscono ad assicurare alla via questi livelli.

Le Memorie di Caroli: un prezioso album di ritratti

Il libro di Flavio Caroli, Memorie di artisti e di bastardi (Torino, Utet libri, 2017) è una collezione di brevi ricordi, memorie di incontri raccolte quasi a voler costituire un album di ritratti dedicati agli artisti che l’autore ha incontrato nel corso della sua vita di studioso.

Il volume è stato presentato ieri sera a Palazzo Reale in un interessante incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano (CSGM) nel quale sono intervenuti Filippo Del Corno, assessore alla cultura del Comune di Milano, l’avvocato Daniela Mainini, consigliere in Regione Lombardia e Presidente del CSGM; Domenico Piraina, Direttore del Palazzo Reale; Gian Arturo Ferrari, Vice Presidente Mondadori Libri; Carlo Tognoli, ex Sindaco di Milano.

Il libro, come Caroli ha ricordato nel suo discorso di presentazione dinanzi a un folto pubblico di appassionati, presenta episodi di vita reale che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea: una materia alquanto difficile da “far digerire” perché accolta da un atteggiamento generale di sospetto per le opere eccentriche degli artisti. Eppure, come ci ricorda il professor Caroli con la sua rigorosa analisi di “scienziato dell’arte”, anche tali opere sono legate tra loro da un filo rosso che spiega la loro genesi nel contesto storico in cui sono nate: “non hanno sempre prodotto successi pari alle intenzioni degli artisti che le avevano create” ricorda l’autore, “ma l’opera c’è stata segnando nel bene e nel male un intero periodo storico”.

In fondo, nelle memorie dei suoi incontri, Caroli non solo ha ricordato un periodo della sua vita, ma ha saputo ritrarre l’anima dell’artista nella sua tormentata esistenza. Nel libro risaltano così preziosi spaccati di vita quotidiana che spiegano la genesi di capolavori dell’arte contemporanea, compreso il mondo del cinema.

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Monica Vitti in Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, 1964

E’ il caso di Michelangelo Antonioni. Caroli ricorda di aver assistito a Roma, nel 1963, a una parte delle riprese di Deserto Rosso ove una Monica Vitti, assonnata, non truccata, compariva a lato di un carretto di frutta e verdura dietro il quale si intravedeva un vecchio ambulante. Caroli ricorda l’insoddisfazione di Antonioni per i colori naturali della frutta: “lì, quando vidi che il regista faceva colorare la frutta e perfino gli abiti del vecchio perché apparissero nel film in tinte cromatiche più scure, iniziai a capire la peculiare concezione che Antonioni aveva del paesaggio, paesaggio come stato d’animo; uno stile che si coglie in modo ancor più incisivo nel film Il Mistero di Oberwald ove Antonioni, sempre all’avanguardia nel saper sfruttare gli ultimi ritrovati della tecnologia, colorò le scene con tecniche digitali”.

Un evento ricordato nel libro è la Biennale di Venezia del 1964, quando in un’Europa immersa nella guerra fredda, “quasi congelata dalle opere della tradizione artistica informale, sbarcarono, tirati giù dai barconi approdati al lido, i colossi americani della Pop Art”.

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Gino De Dominicis, “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua”, 1969.

Molti gli incontri ricordati da Caroli negli anni Settanta. Val la pena ricordare a tal proposito quello con Gino De Dominicis (1947-1998). In un periodo ove per la prima volta gli artisti ricorrevano a spezzoni di filmati per la creazione dell’opera d’arte, un episodio bizzarro fu la preparazione del video che De Dominicis intendeva dedicare al tema della “trasmutazione dei pesci in colombe”. Per le riprese romane sulle rive del Tevere, Caroli ricorda che l’artista aveva portato due stie di colombe bianche, adagiandole sull’acqua. Il programma era questo: aperte le stie, le colombe avrebbero offerto all’artista l’attimo decisivo per filmare il loro spiccare in volo. Le cose andarono però in tutt’altro modo. Le colombe, le cui ali erano inzuppate dalle acque, non ebbero la forza di levarsi in volo e furono raccolte fortunosamente da alcuni colleghi nel corso di una faticosa opera di recupero. Deluso per la dura lezione che i fatti avevano impartito alla sua facile immaginazione, De Dominicis si limitò – più prosaicamente – a girare un filmato in cui compariva lui stesso, ripreso di spalle. Titolo dell’opera “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua”.

Un altro artista è Lucio Dalla (1943-2012). “Ci vedevamo a Roma, a tarda sera, in un bar della Stazione Termini verso l’una di notte” ricorda il professore “Io e lui avevamo in comune l’abitudine di prendere un cappuccino nello stesso bar alle ore piccole. In uno di quegli incontri ricordo che mi disse: ‘Sai, Roma nelle notti di primavera mi sembra un’astronave che parte per viaggi misteriosi’. Alcuni anni dopo, nel 1980, Lucia Dalla cantò uno dei suoi capolavori, La Sera dei Miracoli: una canzone in cui ‘i vicoli di Roma’ prendevano vita assumendo i caratteri che lui mi aveva descritto in quel nostro conversare notturno in stazione”.

Un altro incontro che ha segnato i ricordi del professor Caroli è quello con Andy Warhol (1928-1987) avvenuto alla metà degli anni Settanta nella casa newyorkese dell’artista. “Un uomo freddo agli inizi, circondato dai macabri e bizzarri oggetti della sua abitazione, tra teschi e falli. Era ossessionato dalla morte ma si illuminò improvvisamente quando gli parlai di Pasolini: fu allora che si sciolse e mi raccontò del legame che aveva avuto con lui. Warhol, da freddo qual era, diventò in quell’attimo umanissimo”.

Questi sono solo alcuni degli artisti contemporanei ricordati da Caroli nel suo libro di memorie. In fondo, il filo rosso che lega questi incontri è la loro capacità di cogliere l’attimo perfetto in cui la bellezza si compie.

Quando il falso è figlio del vero che si brama…

“Chi deve falsificare documenti deve sempre documentarsi, ed ecco perché frequentavo le biblioteche”: così confessava candidamente l’agente segreto Simone Simonini, il protagonista del romanzo Il Cimitero di Praga, mentre raccontava le circostanze che lo avevano portato a “fabbricare” il falso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion destinato ad avere una sinistra influenza nella storia europea.

L’altro ieri, mentre assistevo all’interessante convegno del “Centro Studi Grande Milano” su “La storia dell’arte vera: la bellezza dell’autentico”, il mio pensiero è corso al compianto Umberto Eco, il quale ha dedicato al falso pagine indimenticabili nei suoi romanzi: da Il pendolo di Foucault  all’appena citato Cimitero di Praga.

All’incontro di giovedì, tenuto a Palazzo Turati presso la Camera di Commercio di Milano, hanno partecipato gli ex sindaci di Milano Piero Borghini e Carlo Tognoli, l’assessore al lavoro, sviluppo economico, università e ricerca Cristina Tajani, il presidente di Confindustria Anie Claudio Andrea Gemme ed Enrico Valdani, professore ordinario di economia e gestione delle imprese presso l’Università Bocconi.

Un folto pubblico di appassionati ha seguito la lezione dei due relatori: l’avvocato Daniela Mainini e il professor Flavio Caroli.

Daniela Mainini, esperta di diritto penale industriale, presidente del Centro Studi Grande Milano e del Centro Studi Anticontraffazione, oggi consigliere regionale nel Patto civico con Umberto Ambrosoli, ha tenuto un’interessante relazione sul falso nella storia dell’arte, mostrando con efficacia il ruolo per nulla marginale che questa realtà ha avuto nella storia.

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Daniela Mainini, Presidente del Centro Studi Grande Milano

“Nel 1990 – ricorda Mainini – “mi recai a Londra ove al British Museum era stata allestita una provocatoria mostra sul falso curata dal celebre studioso Sir Mark Jones e dai suoi assistenti. L’obiettivo di quella esposizione era stato di rendere consapevole il pubblico di una verità elementare: ogni società falsifica ciò che brama. Fu una mostra di grande valore storico perché gli oggetti e le opere d’arte esposte fecero capire ai visitatori il mutamento dei gusti culturali che avviene nella società nel corso dei secoli”.

In realtà, come ha precisato la relatrice, l’opera d’arte non è falsa in sé. Lo diviene nel momento in cui viene attribuita. La copia di manufatti di pregio era praticata già nella civiltà greco-romana. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, raccontava come un oggetto venisse falsificato in molti modi (adulteratur multis modis). I romani distinguevano tra l’imitatio e l’emulatio: la prima consisteva in una pedestre attività tesa alla copia meccanica di un modello, la seconda in un’opera di alto rilievo artistico.

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Due collezionisti “stregati” dalla Cena di Emmaus

La storia della contraffazione non può farsi tuttavia nell’alto Medioevo, quando gli artisti non avevano ancora una loro individualità. L’identità degli autori di opere d’arte si affermò nel basso Medioevo e in età rinascimentale. I primi casi di contraffazione avvennero soprattutto nel corso del Settecento, in seguito alla scoperta di Ercolano e Pompei. Uno dei primi falsificatori fu il napoletano Giuseppe Guerra (morto nel 1761), pittore e restauratore, che riprodusse alcune pitture pompeiane con tale maestria da ingannare famosi collezionisti europei. La Mainini ha saputo catturare l’attenzione del pubblico nell’esposizione ragionata di tanti casi di opere adulterate. La storia fu un continuo susseguirsi di falsari fino al secolo scorso: da Icilio Federico Joni (1866-1944) ad Alceo Dossena (1878-1937) fino al celebre Han Van Meegeren (1889-1947): questi, seguendo una tecnica esposta in un vecchio trattato di pittura, dipinse su una tela del Seicento la Cena di Emmaus: opera destinata ad essere clamorosamente attribuita al celebre pittore olandese Jan Vermeer (1632-1675).

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Il Professor Flavio Caroli

All’intervento della Mainini è seguita la lezione magistrale del critico d’arte Flavio Caroli che, commentando le immagini di celebri dipinti dal Rinascimento al Novecento, ha mostrato la bellezza dell’autentico nel corso dei secoli: da Masaccio a Piero della Francesca, da Ludovico Carracci a Giuseppe Maria Crespi, da Turner a Monet fino a Morandi.

Resta da spiegare la ragione della straordinaria fortuna che il falso ha avuto nella storia dell’arte e più in generale nella storia della cultura. Forse, richiamandoci a Umberto Eco, questo si spiega perché l’immaginazione, satura di iper-realtà, pretende la cosa vera e, per ottenerla, fabbrica il falso assoluto.