Tutti gli articoli di Gabriele Coltorti

Dalle carte d’archivio aspetti poco conosciuti sulla vita di Leonardo

Allestita nel palazzo dell’antico Collegio Elvetico di via Senato una notevole esposizione di documenti sul genio toscano.

Cessata la paura per il Coronavirus che ha suscitato nella collettività reazioni di panico e paure ingiustificate, oggi si può dire che Milano abbia ripreso a respirare e con ogni probabilità nei prossimi giorni verranno riaperti musei e istituti culturali. Merita in proposito di essere visitata un’interessante mostra su Leonardo Da Vinci allestita nel palazzo ove ha sede l’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10.

Inaugurata il 16 gennaio scorso e aperta fino al 28 marzo, l’esposizione non si segnala soltanto per il ricco materiale documentario. A suscitare curiosità è anche il percorso multimediale allestito nella mostra che, rivolto a un pubblico non specialistico, conduce quasi per mano il visitatore alla scoperta della vita di Leonardo e del mondo in cui visse. Due video ripercorrono le varie tappe della sua esistenza nell’Europa rinascimentale.

Leonardo Da Vinci, La Vergine delle Rocce. Parigi, Museo del Louvre.

Tra i documenti esposti nella mostra è opportuno ricordare il contratto che Leonardo, giunto da un anno a Milano, firmò nel 1483 con la confraternita dell’Immacolata Concezione per la realizzazione di un dipinto da collocare nella chiesa di San Francesco. Questa basilica oggi non esiste più: venne demolita negli anni del dominio napoleonico, quando il governo del Regno d’Italia costruì in quell’area una caserma destinata ai Veliti, uno dei corpi militari istituito da Napoleone re d’Italia. Si tratta dell’attuale Caserma Garibaldi, a pochi passi dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Però all’epoca di Leonardo la chiesa di San Francesco non solo esisteva, ma era una delle più importanti nel panorama cittadino. Essa era aperta al pubblico, gestita dai frati francescani che vivevano nel convento attiguo. Come ricorda Carlo Bianconi, estensore di una interessante guida artistica di Milano pubblicata nel 1795, la basilica fin dal Medioevo era addirittura uno dei templi più grandi della città quanto all’estensione della superficie. Nel contratto, che Leonardo aveva firmato con i membri della confraternita, l’artista era tenuto a realizzare un dipinto avente per oggetto la Vergine Maria e il Bambin Gesù. Le fasi del lavoro furono tuttavia tormentate. La scelta del soggetto su cui venne impostata la narrazione pittorica deluse i committenti: i religiosi pensavano probabilmente che la Madonna dovesse essere dipinta nel rispetto della tradizione e non si aspettavano che Leonardo – agendo per così dire “di testa propria” e ultimando il lavoro dopo molto tempo – realizzasse un’opera sui generis come la Vergine delle rocce , un capolavoro dell’arte pittorica. Nella mostra è esposto il contratto originale del 1483 che si è sopra ricordato: Leonardo lo firmò scrivendo il proprio nome in minuscolo, un errore che i grafologi hanno fatto risalire al disagio con cui visse la sua condizione di figlio illegittimo.

Donato di Montorfano, La Crocifissione, con interventi di Leonardo nel ritratto della famiglia Sforza. Parete Sud del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano.

Il resto dei documenti che sono esposti al pubblico copre un periodo storico esteso a tutta l’Età Moderna (secoli XVI-XIX). Riguardano in larga parte le fasi di realizzazione del celebre Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. Una delle carte più importanti è il reclamo del duca Ludovico il Moro rivolto a Leonardo: questi era sollecitato a portare a termine il suo capolavoro nella parete nord del refettorio dei domenicani. Tale insistenza era dovuta all’urgenza di vedere ultimata la pittura anche nella parete sud, ove Donato di Montorfano andava dipingendo la celebre Crocifissione. Il duca di Milano voleva che Leonardo ritraesse, in questa parete, i membri della sua famiglia sempre con la tecnica, già adoperata per il Cenacolo, della pittura a secco. Oltre alla sua stessa persona, dovevano essere ritratte la moglie Beatrice D’Este e i figli: un reclamo che non sortì però i suoi effetti se pensiamo che noi oggi possiamo vedere queste figure solo abbozzate nella parete sud. Come si può facilmente immaginare, il documento del Moro riveste un’importanza straordinaria per gli storici: aprendo un filone di ricerche oggi pressoché inesplorato, esso consente di verificare se le figure della famiglia Sforza tratteggiate ai piedi della Crocifissione siano effettivamente attribuibili alla mano di Leonardo.

L’annale 2019 dell’ “Archivio Storico Lombardo” pubblicato dalla casa editrice Scalpendi.

In riferimento alle celebrazioni per il cinquecentenario dalla morte di Leonardo, occorre ricordare due saggi importanti sull’argomento contenuti nell’ultimo numero dell’Archivio Storico Lombardo (2019), l’annale pubblicato dalla Società Storica Lombarda che approfondisce con studi rigorosi temi afferenti alla storia del territorio lombardo in età medievale e moderna. Il primo contributo, dello storico dell’arte Edoardo Rossetti, Un diluvio di appunti: l'”Archivio Storico Lombardo” e qualche nota inedita su personaggi vinciani (Evangelista da Brescia e Pietro Monte) (pp.221-248), si segnala per la novità riguardante una più precisa individuazione del luogo in cui si trovava la celebre vigna che Ludovico il Moro donò a Leonardo da Vinci. Muovendo dallo studio di un documento relativo all’acquisto di un terreno, Rossetti è riuscito a localizzare con precisione il luogo della vigna, che si trovava nel sestiere di Porta Vercellina. Essa confinava da un lato con l’antico naviglio che scorreva nell’attuale via Carducci, dagli altri lati con le proprietà dei gesuati di San Gerolamo e di altri privati. Si trattava di una posizione di assoluto rilievo nella Milano rinascimentale, a poca distanza dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, dall’attiguo convento dei domenicani e dal quartiere che il Moro aveva voluto formare tra le attuali vie Zenale, San Vittore e Corso Magenta affinché potessero abitarvi i membri più fedeli del suo governo.

Il secondo saggio dello studioso Cesare S. Maffioli, Alle origini del mito di Leonardo Da Vinci ingegnere dei navigli di Milano (pp.249-270), ricostruisce le origini cinque-seicentesche di una vecchia tesi secondo la quale il genio toscano sarebbe stato l’inventore del naviglio Martesana e delle chiuse. Si tratta, come si può facilmente constatare, di un errore storico perché il sistema delle conche per gestire i dislivelli e i salti d’acqua esisteva da tempo nel ducato di Milano; inoltre varrà la pena ricordare che il Naviglio Martesana venne costruito sotto il ducato di Francesco Sforza (1450-1466), molto tempo prima quindi dell’arrivo di Leonardo in città. L’autore del Cenacolo contribuì invece a perfezionare il sistema dei navigli, lavorando alla conca di San Marco che consentiva di collegare la Martesana con la Fossa Interna del centro cittadino, resa in quell’occasione navigabile e collegata al Naviglio Grande presso la pre-esistente Conca di Viarenna (oggi via Conca del Naviglio).

A Leonardo si dovette inoltre, negli anni del dominio francese seguiti alla cacciata del Moro, l’idea di elaborare un progetto per la navigazione dell’Adda dal Lago di Como fino all’incile del Naviglio Martesana presso Trezzo, il che avrebbe consentito di navigare da Lecco fino a Milano mediante il trasporto di merci e persone. Un’idea per nulla fuori luogo all’epoca, se pensiamo che un risultato analogo era stato conseguito dai milanesi fin dal XIII secolo mediante la realizzazione del Naviglio Grande, che collegava il Lago Maggiore con la Darsena cittadina: in quell’occasione tuttavia le opere non si erano rivelate particolarmente difficili, non trovandosi in quei luoghi un dislivello imponente tra la parte pedemontana e la pianura. Cosa diversa era invece la zona a nord-est di Milano, ove l’Adda scorreva in un letto accidentato e scosceso. Molti anni dopo l’idea leonardesca venne ripresa dall’ingegnere Giuseppe Meda, che nel 1590 ottenne l’approvazione delle autorità spagnole al suo progetto di naviglio. Le operazioni, quantunque iniziate con i migliori auspici, vennero tuttavia interrotte a seguito di alcune calamità naturali (inondazioni ripetute dell’Adda), ma soprattutto per gli scontri ripetuti che avevano opposto il Meda ai colleghi che lo affiancavano nell’esecuzione dell’opera. Inoltre la sua morte (1599) finì con il bloccare definitivamente i lavori che pure erano stati iniziati lungo il corso dell’Adda. Com’è noto, il Naviglio immaginato da Leonardo venne costruito solo nella seconda metà del Settecento: il canale – il Naviglio di Paderno – fu ultimato nel 1777 sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo negli anni del dominio austriaco della Lombardia.

La Galleria Vittorio Emanuele: incrocio di destini tra ‘800 e ‘900

Un volume di cultura milanese ripercorre la storia contrastata del celebre monumento del Mengoni e delle illustri personalità che ad esso furono legate

Il libro di Giovanna Ferrante, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e d’acciaio (Historica, Roma 2018, pp.115, euro 14) è un piccolo volume che ha il pregio di leggersi tutto d’un fiato. Un’opera che si può definire “anfibia” non foss’altro perché vi troviamo elementi che la avvicinano a un libro di storia, mentre altri la fanno rientrare nel genere della narrativa e questo per ragioni che esporremo più avanti. Il libro costituisce un ottimo strumento per conoscere uno dei monumenti più celebri di Milano, un volume particolarmente adatto a chi si avvicina per la prima volta alla storia della Galleria Vittorio Emanuele II.

GIOVANNA FERRANTE, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e acciaio. Historica, Roma 2018, 14 euro, 115 p.

L’autrice, che nel suo sito internet si definisce “meneghina doc ‘innamorata’ della sua città”, è attiva da tempo nel mondo della cultura ambrosiana: i suoi libri sono dedicati alla storia urbana, presa in esame nei vari campi dell’architettura, del costume, della cucina, della vita sociale e politica. Giovanna Ferrante, che in passato è stata autrice e conduttrice di trasmissioni radiofoniche presso Radio Meneghina, ha curato interessanti rubriche settimanali dedicate alla città. Insignita dell’Ambrogino d’Oro nel 2007, dal 2016 è responsabile della “Direzione Storie e Tradizioni milanesi” per il Centro Studi Grande Milano. L’autrice è quindi un’esperta di cultura milanese.

Il libro, come si è accennato, non è un’opera storica in senso stretto. E’ un racconto suggestivo in cui l’autrice ripercorre le controverse fasi di costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II, facendo quasi rivivere le persone che ad essa furono legate in un modo o nell’altro: oltre alle analisi storiche condotte dalla Ferrante in merito ai tempi di realizzazione, all’inaugurazione e alle dimensioni di tale monumento, il lettore viene quasi portato per mano nella Milano dell’Otto e Novecento, come se fosse chiamato ad assistere a frammenti di vita quotidiana di personalità che furono legate alla storia della galleria. 

Efficace ad esempio il ritratto dell’architetto Giuseppe Mengoni – colui che vinse il concorso per la costruzione dell’edificio e lo realizzò nell’arco di più di dieci anni – descritto nell’atto di parlare al suo canarino o alla moglie mentre rivela i tormenti, le paure o le delusioni che lo attanagliavano. 

La Galleria Vittorio Emanuele all’ingresso verso Piazza del Duomo: a destra il primo Campari, a sinistra il secondo Campari (Camparino). Foto risalente ai primi anni del XX secolo.

Un’altra pagina di storia milanese è quella che si apre con il ritratto della famiglia Campari, che l’autrice disegna con grande efficacia narrativa facendo parlare la moglie di colui che fu il vero artefice del successo: Gaspare. Emigrato a Milano da Novara nella speranza di fare fortuna nell’attività di distillazione dei liquori e nella gestione di un caffè, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento Gaspare aprì la sua attività nel Coperto dei Figini, un portico quattrocentesco che occupava il lato nord della piazza del Duomo. La demolizione di questo edificio dovuta all’allargamento della piazza e alla costruzione della Galleria non colse impreparato il commerciante novarese, che non esitò ad investire i suoi pochi fondi per prenotare uno spazio nel nuovo edificio. Il lettore apprende queste notizie dalle parole della signora Letizia, che possiamo immaginare con quale felicità avesse appreso dal marito che gran parte dei risparmi erano stati impiegati nella nuova impresa del Campari in Galleria: “Cosa stai dicendo? Non abbiamo ancora sistemato tutte le pendenze, stiamo appena cominciando a vedere i primi frutti di tanti pensieri e tanta fatica e adesso quest’altra bella novità! Gaspare, ma cosa ti viene in mente? Prima ancora di sapere cosa sarà questa nuova costruzione, no guarda, non posso crederci, hai prenotato una bottega in una Galleria che è ancora solo sulla carta” (pag,66). Da storico non posso che diffidare di questo racconto, frutto della pura immaginazione dell’autrice. E’ un discorso chiaramente inventato; ma come appare verosimile e, soprattutto, come si integra bene nel contesto storico che si sta descrivendo! Quelle non sono certo le parole di Letizia, ma qualcosa di quei pensieri dovette frullarle nella testa mentre il marito rischiava il suo patrimonio nell’investimento in Galleria. Gaspare vide giusto: il Campari divenne uno dei locali più rinomati di Milano e, mezzo secolo dopo, nel 1915, la famiglia riuscì perfino ad allargare la sua attività nel celebre passaggio vetrato del Mengoni aprendo, sul lato opposto (lato ovest), il Camparino, uno dei locali più caratteristici di Milano, tuttora esistente. 

Eugenio Torelli Viollier (1842-1900), primo direttore del “Corriere della Sera”.

L’analisi storica in questo libro si alterna così alla parte per così dire “narrativa”, rendendone accessibile la lettura anche a un pubblico di non specialisti. Si succedono le storie di Eugenio Torelli Viollier, primo direttore del “Corriere della Sera”; la prima sede del giornale si trovava in due stanze nell’ammezzato della galleria, un ufficio composto da tre redattori e quattro operai. L’autrice dedica particolare attenzione alla moglie del direttore, Maria Antonietta Torriani: fu la prima firma femminile della testata. Quella tra Torelli Viollier e la Torriani fu una relazione sofferta, dai risvolti tragici. La loro unione, durata due anni (1875-1877), fu bruscamente spezzata dalla morte improvvisa della nipote di Maria Antonietta, la giovanissima e avvenente Eva, suicidatasi mentre era ospite dei coniugi Viollier a Milano; la ragazza non resse agli attacchi di gelosia di Maria Antonietta, che l’aveva derisa davanti a conoscenti e amici, non perdonandole la relazione intima che il marito andava intrattenendo con lei. Nelle pagine della Ferrante si susseguono altre storie di personaggi che in un modo o nell’altro furono legati alla Galleria: da Ernest Hemingway a Umberto Boccioni, dal deputato radicale Felice Cavallotti agli scrittori veristi Giovanni Verga e Luigi Capuana.

Cosa è rimasto oggi di quel mondo? Come possiamo descrivere la Galleria Vittorio Emanuele al giorno d’oggi? Il monumento del Mengoni ha vissuto negli ultimi anni un’autentica evoluzione. Non si tratta solo di una diversa atmosfera che vi si respira. Ad essere cambiata sembra essere la stessa percezione che ne hanno i milanesi. Tale risultato è dipeso in buona parte dall’oculata gestione degli spazi che l’amministrazione comunale ha saputo condurre ormai da tempo. E’ di poche settimane la notizia che Giorgio Armani, dopo un confronto serrato con Tod’s, si è aggiudicato l’affitto di un locale (302 metri quadrati) ove fino a pochi mesi fa aveva sede un negozio TIM. Lo stilista ha così rafforzato la sua presenza nella Galleria ove hanno sede, ormai da anni, alcuni tra i marchi di moda più esclusivi: basti ricordare, per citarne alcuni, Prada, Luis Vuitton, Gucci.

Anche la presenza dei ristoranti si è in gran parte rinnovata ed arricchita: certo, c’è ancora il Savini, nei cui locali, tra la seconda metà dell’Ottocento e il XX secolo, si ritrovavano cantanti, attori, personalità della cultura, della classe dirigente e della classe politica italiana: qui esiste ancora il tavolo 7, un tempo riservato alla celebre cantante lirica Maria Callas e al suo compagno, l’armatore greco Aristotele Onassis. 

Carlo Cracco, chef pluripremiato, proprietario dell’omonimo ristorante in Galleria

L’arrivo di Cracco, che si è stabilito in alcuni locali del braccio meridionale, è stata una vera novità: il cuoco vicentino ha svecchiato il comparto della ristorazione di qualità, che in galleria era rimasto da troppi anni immutato per quanto concerne l’allestimento delle vetrine. Il risultato è pero che oggi il passaggio coperto del Mengoni è divenuto un salotto esclusivo, tempio del lusso, i cui spazi possono essere frequentati solo da una ricca clientela. E’ come se la galleria, da almeno un decennio, abbia finito per assumere una sua identità separata dal resto della città, un po’ come avviene nel celebre “Quadrilatero della Moda”. 

E’ vero che a riportarci alla Milano dei milanesi morigerati ci sono ancora negozi ‘normali’ come la libreria Rizzoli (oggi del Gruppo Mondadori) nel braccio nord o la Feltrinelli nel braccio sud. Esiste ancora il Camparino ove si può ammirare uno stupendo orologio risalente agli anni dell’Art Nouveau. Però l’impressione è appunto quella che ho tracciato sopra: la Galleria si è trasformata in uno spazio del lusso. 

Un tempo le cose non stavano così. Gli storici ci dicono che la Galleria, poco tempo dopo la sua costruzione, divenne sede di vivaci aziende del commercio, della ristorazione. Alcuni anni fa, in uno dei miei articoli, dimostrai addirittura come il passaggio coperto del Mengoni fosse divenuto nella seconda metà dell’Ottocento un punto di ritrovo per tutte le classi sociali, dagli umili artigiani fino all’intraprendente borghesia degli affari che viveva e lavorava nelle vicinanze. La Galleria costituì inoltre un luogo irrinunciabile anche per i tanti cantanti, ballerini e ballerine, attori e attrici, registi attivi nel vicino Teatro alla Scala. Non basta. Nella Milano ove sono ambientati i racconti di Giovanna Ferrante, ma anche nella città novecentesca la Galleria costituì una meta fondamentale per quanti lavoravano nelle vicinanze: dai funzionari delle vicine banche d’affari agli esponenti della classe politica milanese che svolgevano l’ufficio di consiglieri comunali o di assessori a Palazzo Marino, dagli impiegati pubblici alla vivace borghesia del commercio attiva nei negozi circostanti, tutti passarono sotto il monumento del Mengoni: un’opera destinata a divenire ben presto uno dei simboli di Milano.

Il cuore pulsante di Milano

Un libro ripercorre la storia della città ambrosiana dalle origini fino ai tempi presenti, individuandone i tratti peculiari e le costanti nel tempo.

Negli ultimi anni la formula “modello Milano” viene costantemente ripetuta da politici, esponenti della classe dirigente e da imprenditori per descrivere un tipo di convivenza civile – quella milanese – che mette al centro la solidarietà e l’operosità dei suoi membri, i quali lavorano al servizio della comunità facendo ciascuno la sua parte. E’ un termine spesso abusato, che trova però un suo fondamento storico: nel corso dei secoli, dalla tarda antichità al Medioevo, dall’Età Moderna ad oggi, la città di Ambrogio ha saputo crescere e progredire grazie alla capacità dei milanesi di rispondere concretamente alle sfide dei tempi: le fratture e le violente divisioni interne – che pure vi furono tra le diverse comunità e famiglie – vennero di volta in volta ricomposte in nome del bene comune. In particolar modo a partire dal Medioevo, la società milanese nelle sue articolazioni cetuali riuscì a intessere con i reggitori del potere un dialogo costruttivo per la tutela dei suoi interessi economici e politici.

“The Milan’s Heart. Identity and History of a European Metropolis”, edited by Danilo Zardin, Milano, Scalpendi editore, 2019, pp.207, 15 euro.

Questa caratteristica di lungo periodo nella storia di Milano è al centro del bel libro The Milan’s heart. Identity and history of a European metropolis (Scalpendi Editore, Milano 2019, 207 p.): si tratta della nuova edizione in inglese, corredata da un elegante apparato di immagini, di un volume curato dal professor Danilo Zardin nel 2012 avente per titolo Il Cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Rizzoli editore). Vi sono raccolti saggi di storici che hanno posto al centro della loro analisi scientifica il ruolo di Milano nella civiltà europea e i tratti distintivi della sua costituzione interna.

Quali sono gli elementi di lunga durata che caratterizzano il senso di appartenenza alla comunità milanese? In primo luogo, il civismo e una operosa solidarietà, la capacità di accettare il diverso raccogliendo le sfide dei tempi per un modello innovativo di convivenza. Questo avvenne ad esempio nella Milano capitale dell’Impero Romano d’Occidente, quando nel 313 d.C. l’imperatore Costantino vi pubblicò il celebre editto di tolleranza che consentiva ai cattolici di praticare liberamente il loro culto non diversamente da quanto i Romani avevano permesso fino a quel momento alle altre confessioni religiose. Nasce qui la prima forma di quel “modello Milano” cui si è fatto cenno poco sopra, esempio di convivenza tra diversi che si rispettano, vivono e lavorano nell’obbedienza alle leggi.

Agostino Comerio, “Ritratto dell’imperatrice Maria Teresa di Asburgo”, 1834, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Salone Maria Teresa.

Un secondo tratto distintivo di Milano risiede nel suo spirito riformatore, nella capacità di aprirsi al nuovo, di adattare le istituzioni e le politiche di governo ai bisogni della società. Un caso per certi versi emblematico è costituito dal riformismo settecentesco che svecchiò l’amministrazione del Ducato di Milano avvicinandola a quella di uno Stato moderno. In effetti, come ha dimostrato Carlo Capra, in Lombardia le riforme absburgiche furono portate avanti per volontà dei governanti austriaci (l’imperatrice Maria Teresa di Asburgo, l’imperatore Giuseppe II) e videro l’attivo coinvolgimento di funzionari provenienti da altri territori della monarchia (basti pensare al cancelliere di Stato, il viennese di origini morave Anton Wenzel von Kaunitz Rittberg, al trentino Carlo Giuseppe di Firmian, all’istriano Gian Rinaldo Carli, al toscano Pompeo Neri); non va tuttavia sottovalutato il contributo di un patriziato milanese aperto al nuovo, tra i cui esponenti più noti val la pena ricordare Cesare Beccaria e Pietro Verri: dapprima quali intellettuali attivi nel celebre periodico “Il Caffè”, poi nel ruolo di funzionari pubblici al servizio della monarchia austriaca, essi parteciparono attivamente all’attuazione delle riforme illuminate nei campi della giustizia, dell’economia, dell’agricoltura, del commercio. Le riforme del Settecento illuminato in Lombardia (ricordiamo ad esempio quella sull’autoamministrazione delle comunità locali del 1755 o del catasto particellare del 1760), costituirono il primo stadio di un rinnovamento istituzionale che toccherà il vertice negli anni della Repubblica Italiana e del Regno italico (1802-1814), quando il governo napoleonico avrebbe contribuito in modo decisivo a rinnovare le strutture della società. Le riforme absburgiche e napoleoniche fecero di Milano un vero e proprio laboratorio della modernità e questo nonostante le resistenze conservatrici che pure vi furono.

Filippo Abbiati, Solenne ingresso di San Carlo Borromeo a Milano, 1670-1680, Milano, Duomo.

Un altro esempio di riformismo autenticamente milanese riguarda il governo della chiesa ambrosiana. Esso è costituito dall’azione incisiva dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, il quale negli anni del suo ministero al vertice della curia milanese (1564-1584) fece della diocesi un territorio all’avanguardia nell’applicazione rigorosa dei canoni della Riforma Cattolica fissati dal Concilio di Trento. Il riformismo borromaico si radicò in profondità: le articolazioni cetuali della società milanese furono informate allo spirito di una devotio vissuta con appassionato fervore. Il coinvolgimento del fitto tessuto delle confraternite laicali, la fondazione di seminari e collegi per la formazione del clero, le Scuole della Dottrina Cristiana per l’educazione dei giovani, la pubblicazione di opuscoli e libri in italiano per aiutare i laici ad affrontare le difficoltà della vita orientando le opere allo spirito cristiano, furono interventi che segnarono profondamente l’identità milanese. A tal proposito, facendo stampare in italiano catechismi, testi contenenti istruzioni morali, libri spirituali e pedagogici per ciascun ordine o categoria della società (militari, padri e madri di famiglia, capi di bottega), il Borromeo diede un contributo di primo piano alla diffusione dell’alfabetismo in Lombardia già alla fine del XVI secolo. Questo riformismo ambrosiano venne continuato, con accenti e strategie diverse, dal nipote Federico Borromeo (arcivescovo dal 1595 al 1631) e dal successore di questi, il cardinale Cesare Monti (1631-1650). Come ha messo in evidenza il professor Danilo Zardin nel saggio Da Carlo a Federico Borromeo: alle origini di una nuova identità “ambrosiana” (nella edizione inglese From Carlo to Federico Borromeo: at the Origins of a new “ambrosian identity”, pp.95-102), alla battagliera opera di San Carlo per un riforma della società che lo portò a scontrarsi in più occasioni con le istituzioni civili del Ducato di Milano, i due presuli sostituirono una più prudente azione pastorale che puntò soprattutto a rafforzare le istituzioni culturali nella diocesi per una discreta ma non meno profonda formazione degli spiriti: basti pensare alla Biblioteca Ambrosiana aperta dal cardinal Federico nel 1609 per chiunque avesse desiderato leggere ed istruirsi.

Purtroppo non è possibile soffermarsi sui tanti temi che sono affrontati in questo libro. Avviandomi alla conclusione, credo che un terzo tratto distintivo di Milano risieda nella sua natura internazionale, nell’apertura al mondo, al diverso. La città ambrosiana è infatti una metropoli profondamente europea per stili di vita, costumi, economia, cultura. Credo che la naturale disposizione a vivere e operare entrando in stretta relazione con ambienti internazionali vada ricercata – come notò acutamente Giorgio Rumi in un interessante saggio del 1993 (G. Rumi, Milano e l’Europa in AA.VV., Ottocento romantico e civile. Studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves. Milano, Vita e Pensiero 1993, pp.343-350) – nei secoli in cui il Ducato di Milano venne incorporato entro la sfera di governo di poteri pubblici plurinazionali: la monarchia absburgica spagnola dalla metà del XVI secolo al 1706, i domini degli Asburgo di Vienna dal 1706 al 1796. In questi vasti imperi, composti da territori con tradizioni giuridico amministrative assai diverse, i milanesi riuscirono per secoli a tutelare i loro interessi economici e politici grazie alla distanza che li separava dai centri di potere entro il cui dominio pure si trovavano. Persa l’indipendenza politica nel 1499, il Ducato di Milano ebbe riconosciute dai Francesi , dagli Asburgo di Spagna e per buona parte del Settecento anche dagli Asburgo di Vienna le sue storiche autonomie giuridico-amministrative risalenti al periodo visconteo-sforzesco. I milanesi dovettero però accettare la sovranità di monarchi le cui corti si trovavano oltralpe, assai distanti dall’Italia cisalpina. Eppure non sembra azzardato ritenere che la natura internazionale di Milano – già presente nell’Età antica e nel Medioevo – si sia rafforzata ancor più in questo periodo, quando i milanesi furono obbligati a confrontarsi con burocrazie europee (spagnola prima, austriaca poi) in un dialogo costruttivo con i sovrani absburgici: questo permise loro di intervenire negli organi consiliari (a Madrid come a Vienna), che garantivano la rappresentanza dei diversi territori al centro della monarchia. Di qui un’apertura costante al diverso e un’attitudine a confrontarsi con politiche pubbliche che superavano la sfera regionale, poste com’erano in una dimensione internazionale.

Rappresentanza parlamentare come selezione dei più capaci

Nel libro di Cassese una riflessione sulle forme e i limiti della sovranità popolare

Sabino Cassese

Nel libro di Sabino Cassese (Il popolo e i suoi rappresentanti. Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019, 121p.) sono pubblicati alcuni testi interessanti scritti da esponenti della classe politica liberale sui valori fondanti di un regime democratico. Si tratta di interventi risalenti a un periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Il volumetto è curato da uno dei massimi studiosi di storia dell’amministrazione pubblica, cui si deve il prezioso saggio introduttivo sul concetto della rappresentanza politica. Cassese fa un po’ di chiarezza su termini spesso abusati, che hanno larga presa sui cittadini: “parole magiche” come “democrazia”, “democrazia rappresentativa”, “elezioni politiche”; termini utilizzati da molti politici in via strumentale per indicare un tipo di democrazia ch’essi vorrebbero fondata su una concezione radicale e astratta del principio della sovranità popolare.

S. Cassese, “Il popolo e i suoi rappresentanti”. Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019. pp.121. Il costo è di 9 euro.

La critica colpisce soprattutto il Movimento 5Stelle (e non solo), definiti “lontani pronipoti di Rousseau”. Cassese ha ragione quando contesta l’accezione radicale del concetto di democrazia che alcuni politici estremisti vorrebbero fondare su un potere illimitato dato al popolo nel governo della comunità.

Egli si rifà invece a una corrente di pensiero tra i cui esponenti val la pena ricordare Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce: personalità autorevoli della cultura e della classe politica liberale che, avendo assistito all’affermarsi della dittatura e al seguito travolgente che essa aveva avuto nelle masse, ritenevano opportuno limitare gli strumenti di democrazia diretta e l’intervento del popolo nell’esercizio della democrazia repubblicana.  

Ai demagoghi che affermano il potere sovrano del popolo di scegliersi i suoi rappresentanti nelle elezioni politiche, Cassese risponde che “in nessun paese gli elettori possono indicare sulla scheda elettorale un nome a propria scelta: votano una lista o un nome proposto dai partiti o altre forze politiche” (pag.8). Inoltre non si può affermare – sostiene Cassese – che il popolo elegga in Parlamento i suoi rappresentanti perché i cittadini di un collegio territoriale sono moltissimi, è categoricamente impossibile che il deputato li conosca tutti, come è altrettanto impossibile che egli possa ricevere un “mandato” perché si comporti nel modo atteso da ciascuno di loro: “il rappresentante non agisce in nome e per conto del rappresentato, né imputa ad esso gli effetti della propria azione perché l’eletto è autonomo rispetto ai votanti” (pag.7).

Osservazione fondamentale, che marca nettamente la differenza tra la rappresentanza privata nel diritto romano, tra la rappresentanza di ceto negli ordinamenti medievali e d’antico regime da una parte e la rappresentanza politica nelle democrazie moderne dall’altra; se in queste ultime sussiste il divieto del mandato imperativo, che nel diritto privato lega il mandatario al suo mandante, ciò avviene per ragioni di interesse pubblico. In un collegio che rappresenta un’intera comunità, le leggi non possono essere approvate sulla base degli interessi egoistici di frazioni di cittadini. Devono – o dovrebbero – riflettere l’interesse pubblico. Giunti a questo punto, è però inevitabile che il lettore si chieda che funzione abbiano le elezioni se il popolo non esercita un potere sovrano. Cassese concorda in questo con i maggiori esponenti del partito liberale, secondo i quali il popolo non eserciterebbe un potere sovrano di scelta dei deputati. Vittorio Emanuele Orlando definiva nel 1889 il concetto della rappresentanza politica non già come “delegazione di poteri”, bensì come “designazione di capacità”.  

Altro argomento centrale del libro è il suffragio universale. Nel 1910 Silvio Spaventa riteneva che esso, riguardante all’epoca il solo elettorato maschile, sarebbe stato mezzo incisivo per limitare l’ingerenza della politica nell’amministrazione dello Stato, politica  che era allora monopolizzata dalla borghesia grazie al meccanismo delle elezioni a suffragio ristretto; Spaventa riteneva che l’estensione del voto alle masse, rendendo possibile l’ingresso in Parlamento dei partiti popolari, avrebbe garantito anche in Italia una corretta alternanza tra partiti di governo e partiti di opposizione. 

Nel 1911 si espresse a favore del suffragio universale maschile anche Sidney Sonnino in un accorato scritto pubblicato a cinquant’anni dall’unità italiana. Egli pensava che il coinvolgimento di milioni di analfabeti, fino a quel momento esclusi dalla partecipazione alla politica, avrebbe rafforzato il regime liberale, avrebbe spinto i cittadini a riconoscersi nelle istituzioni rispettando le leggi e l’azione amministrativa dello Stato. Un giudizio eccessivamente ottimista. Spaventa non avrebbe mai immaginato che la crisi della società italiana al termine del primo conflitto mondiale, l’instabilità provocata negli anni del primo dopoguerra dalla breve durata dei governi, dai continui scioperi e dalle violenze dei fascisti avrebbero segnato la fine dello Stato liberale.

Credo tuttavia che la riflessione più interessante in tema di suffragio universale sia quella formulata da Giovanni Giolitti in uno scritto risalente al 1922 (nel libro alle pp.85-105): il politico piemontese ricordava che la legge sul suffragio universale maschile, approvata dieci anni prima, era stata voluta dal suo governo per ragioni di giustizia ma anche di convenienza politica perché in tal modo si poteva sperare di sottrarre le masse all’influenza pericolosa dei movimenti estremisti. Giolitti era convinto che quella legge avesse contribuito non solo alla sicurezza sociale, ma anche all'”elevazione materiale e morale delle classi popolari”. 

Che tipo di suffragio era tuttavia quello della legge del 1912? Era davvero un suffragio universale come lo intendiamo oggi, esteso a tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione alcuna? Non proprio. Oltre ad escludere le donne, si trattava di un suffragio diversamente regolato in base al criterio dell’alfabetismo. A quei tempi si voleva evitare di attribuire un diritto politico a chi fosse ritenuto immaturo o non in grado di esercitare con saggezza e prudenza quel dovere civico. La legge fissava i seguenti criteri: era mantenuto il diritto di voto per i cittadini alfabeti, in possesso della licenza elementare, che avessero compiuto almeno 21 anni; tale diritto valeva anche per quanti avevano fatto il servizio militare; per gli analfabeti invece, solo chi avesse superato la soglia dei trent’anni poteva votare nelle elezioni politiche.  Giolitti spiegava così la ragione che aveva spinto il suo governo a restringere il diritto di voto agli analfabeti : 

Giovanni Giolitti (1842-1928)

“Nove anni di esperienza di vita, quanti sono quelli che corrono tra il ventunesimo e il trentesimo anno, sono una buona scuola, che può, e per certi rispetti con vantaggio, sostituire l’istruzione elementare, specie nelle classi popolari dove gli individui devono presto assumersi la responsabilità della loro condotta e guadagnarsi il pane. L’uomo del popolo, che generalmente a trent’anni ha già famiglia e figli, diventa riflessivo e sedato, e non si lascia troppo agevolmente fuorviare dalle propagande di idee e propositi eccessivi”. (pag.94) 

Una spiegazione che, fatte le dovute differenze di tempo e di condizione sociale, non manca di far riflettere ancora oggi quando un largo fronte trasversale composto dal Movimento 5 Stelle, dalla Lega, dal Pd, ha proposto addirittura di abbassare il diritto di voto a 16 anni.

Ma una riflessione andrebbe fatta a mio avviso anche sull’elettorato passivo, vale a dire sul diritto di candidarsi alle istituzioni elettivo rappresentative: qui dovrebbe essere introdotta una restrizione che limiti fortemente l’accesso alle cariche pubbliche, ammettendo solo esperti nelle discipline umanistiche, giuridiche ed economiche o quanti si siano distinti nell’imprenditoria fondando aziende di successo che hanno creato posti di lavoro e hanno contribuito ad arricchire il Paese. Se è del tutto normale che si richiedano titoli e competenze elevati a quanti avanzano la loro candidatura ai ruoli apicali di un’azienda privata, non capisco per quale motivo ciò non debba avvenire nelle elezioni politiche e amministrative, ove si devono scegliere persone che dovranno rappresentare il Paese o le comunità territoriali nelle funzioni pubbliche; vale a dire in posti di altissima responsabilità, il cui potere può influenzare la vita civile e sociale.

Come scrive Cassese, noi assistiamo invece a uno scadimento della cultura politica, evidente nella scarsa competenza e capacità di molti deputati eletti in Parlamento. La ragione di tale imbarbarimento risiede nella mancanza di una legge sui partiti che possa introdurre meccanismi severi, atti a renderli un filtro efficace nella scelta dei nomi da sottoporre all’elezione popolare per il Parlamento, per le Regioni o i Comuni della Repubblica. Una mancanza che si fa sentire e alla quale si chiede urgentemente di porre riparo. Già Benedetto Croce, in un articolo pubblicato nel 1950, si soffermava su questo punto quando sosteneva:

Benedetto Croce (1866-1952)

“Un hiatus par che si apra tra gli uomini, tra le classi dirigenti e competenti e le masse elettorali. Il punto è far sì che queste possano mandare ai parlamenti un buon numero di uomini intelligenti, capaci e di buona volontà. A fare che ne esca il migliore possibile debbono lavorare i partiti…” (pag.115).

Civismo e rispetto delle regole: così l’italia avrà un futuro

Nel libro di De Bortoli un’analisi disincantata dei mali che affondano il Paese.

Invita a riflettere sui nostri difetti e sulle nostre virtù di italiani il libro di Ferruccio De Bortoli (Ci salveremo. Appunti per una riscossa civica, Milano, Garzanti 2019, 172 pagine).

Il volume presenta una critica ragionata ad alcune politiche del governo. Ci si sofferma ad esempio sulla cosiddetta flat tax per le partite iva di artigiani, commercianti, agenti di commercio limitatamente a soglie basse di fatturato: 15% fino ai 65.000 euro di ricavi. Tale aliquota, com’è noto, sostituirà l’Irpef, le addizionali e l’Irap. Viene data inoltre la possibilità agli imprenditori di non aggiungere l’Iva al costo del lavoro, agevolando in tal modo la concorrenza sleale. Queste norme – commenta De Bortoli basandosi sulle analisi del professor Dario Stefanato – finiranno per scoraggiare la crescita delle aziende perché gli imprenditori, volendo pagare meno imposte, preferiranno costituire tante imprese di piccole dimensioni e continuare a beneficiare della flat tax.

A suscitare forti preoccupazioni è però un altro provvedimento citato nel libro: nella legge di bilancio 2019 è stata introdotta una norma che consentirà alla pubblica amministrazione di affidare i lavori pubblici a un’impresa agendo in via diretta, senza passare per una gara di appalto. Questo limitatamente ad interventi che abbiano un costo non superiore ai 150.000 euro. Rispetto alla normativa precedente si tratta di un notevole innalzamento della soglia, se si considera che il limite era stato fissato in precedenza a 40.000 euro. Il rischio è che un ente pubblico – guidato magari da un politico corrotto – tenda a favorire aziende disoneste o colluse con sistemi malavitosi facendo pagare costi enormi alla collettività per il rischio di tangenti. In precedenza, come ha osservato il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, le aziende erano tenute a presentare un certificato antimafia. Ora non più. Il rischio di infiltrazioni malavitose sarà quindi altissimo. E’ vero che per i lavori superiori ai 150.000 euro resterà la procedura della gara di appalto e che in Europa tale procedura è limitata ad interventi ancora più costosi, pari a 240.000 euro. Occorre però rilevare che in un Paese come l’Italia, ove la corruzione è tanto diffusa, sarà facile alla criminalità e ai politici disonesti fare i loro affari a detrimento del bene pubblico.

Ferruccio De Bortoli

A ben vedere, il libro di De Bortoli contiene una rassegna disincantata delle eccellenze e dei mali presenti nella società italiana; mali che non provengono soltanto dai politici; sono il risultato della mancanza di civismo e di rispetto per le regole che si ravvisa in tanta parte della classe dirigente, nonché nei comportamenti quotidiani della gente comune. Pensiamo soltanto agli imprenditori che fissano la sede legale delle aziende nei paradisi fiscali per non pagare le tasse in Italia. E’ solo uno dei tanti esempi che si potrebbero portare a tal proposito, che rivela la tendenza degli italiani a curare i loro interessi dimenticando quella cura per il bene comune che dovrebbe costituire il fondamento di una comunità fatta di uomini liberi e responsabili.

Un caso che mostra la completa assenza di civismo è quello dei pensionati che si sono trasferiti all’estero per usufruire di un migliore regime di tassazione. Molti ad esempio vivono in Portogallo, dove la legge di quel paese consente di condurre un’esistenza agiata senza pagare imposte per dieci anni. Tuttavia alcuni di questi pensionati si son guardati bene dal registrarsi nell'”Anagrafe degli italiani residenti all’estero”, perché questo finirebbe con l’escluderli dal servizio sanitario nazionale. Vanno all’estero per non pagare le tasse ma continuano a succhiare dalla mammella italiana per continuare ad usufruire del welfare italiano che resta, nonostante tutto, di qualità.

Occorre tuttavia precisare che De Bortoli non intende indossare la veste del censore dei difetti nazionali, un ruolo che in passato non pochi giornalisti hanno interpretato lasciandosi andare alla retorica degli italiani inaffidabili, individualisti e machiavellici. L’autore ama il suo Paese e non esita a ricordare i tanti successi raggiunti dall’Italia nei campi più svariati.

“Siamo la seconda manifattura d’Europa dopo quella tedesca. Primi per numero di piccole e medie imprese manifatturiere. Il valore aggiunto del settore agro alimentare è tre volte quello dell’automotive di Francia e Spagna e il doppio della somma di aerospazio di Francia, Germania e Regno Unito. E siamo al vertice, i migliori, nell’efficacia e nella capillarità dei controlli sulla qualità dei cibi. L’Italia è ai primi posti nel mondo per il livello di salute della sua popolazione (pag.36)”.

Sono queste ed altre belle pagine della nostra economia che spingono De Bortoli a chiedere ai cittadini una riscossa civile per combattere quei comportamenti negativi che segnano il declino del nostro Paese. I buoni esempi non mancano; si vedono nella vita quotidiana, nella cura per le piccole cose, nell’educazione e nel rispetto per l’ambiente. Casi che però sembrano di gran lunga superati dai tanti cattivi esempi. Pensiamo alla mancata pulizia degli spazi pubblici. Perché a nord delle Alpi o vicino alle Alpi il decoro di vie, piazze e giardini tende ad essere preservato con cura, mentre a sud prevale l’incuria e la sporcizia? Si badi che il discorso vale sia a Nord che a Sud perché alcune strade di Milano non sono certo tenute meglio rispetto alle piazze di Roma e di Napoli. In questi casi, nella scarsa attenzione per gli spazi pubblici, in quei comportamenti maleducati diffusi purtroppo fin nei più remoti interstizi della società, si ravvisa chiarissima la mancanza di cura per il bene pubblico e l’assenza di civismo. Un abisso che separa l’Italia dagli altri Stati europei.

Molti dei nostri concittadini non esitano a sporcare buttando per terra mozziconi di sigarette o bottiglie di plastica. La loro coscienza non è per nulla turbata: essi son pronti a nascondersi dietro la comoda scusa che è compito dei netturbini tenere pulita la strada o i parchi pubblici. Perché dunque preoccuparsi di non sporcare o di fare pulizia in prima persona? In fondo, è lo stesso ragionamento di una ragazzina quando, alla domanda di un signore sul motivo che l’aveva spinta a buttare in terra una cartaccia, gli ha risposto candidamente: – E la bidella che ci sta a fare? Esempio perfetto della persona maleducata.

A Roma la situazione, com’è ormai fin troppo noto, ha assunto livelli addirittura intollerabili. La società municipalizzata del Comune, Ama, non è in grado di assicurare una corretta pulizia delle strade. Questo chiama in causa la pessima amministrazione delle giunte che si sono succedute in Campidoglio nel corso degli anni: dal centrodestra al centrosinistra fino ai 5Stelle. Il che però non basta a spiegare il disastro. De Bortoli si spinge più in là e, sulla base dei dati dei bilanci comunali, si chiede se una parte di responsabilità non l’abbiano anche i romani quando molti di loro si rifiutano di pagare la TARI: “La maggiore evasione si registra a Roma. Nella provincia della capitale mancano all’appello 149 euro per cittadino. Nella Città metropolitana di Roma si constata la più basse percentuale nazionale di riscossione dell’accertato. Il Lazio è al primo posto per il mancato incasso della tassa sui rifiuti con un buco di 121 euro pro-capite…”

Riusciremo a risollevare l’Italia? L’autore è un inguaribile ottimista. In caso contrario avrebbe scelto un altro titolo al suo bel volumetto. De Bortoli si è rivolto invece agli italiani con due semplici parole: “Ci salveremo”: un atto di fede nel genio e nella forza di volontà che ha reso grandi gli italiani nel corso dei secoli. Parole che riprendono le meditate riflessioni di Aldo Moro che, in un discorso del 1976, nel ricordare la sua esperienza di ministro dell’istruzione alla fine degli anni Cinquanta, così condensava le ragioni che allora avevano spinto il governo ad introdurre l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole medie e superiori:

Aldo Moro

Questo Paese non si salverà se la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà una nuova stagione dei doveri”.



Riscoprirsi ebrei negli anni dell’esilio

Le peripezie dei Gerbi, in fuga dall’Europa a causa delle leggi razziali del 1938

Il libro di Sandro Gerbi (Ebrei riluttanti, Hoepli, Milano 2019, 158p) è un testo di notevole interesse storico per almeno due ragioni. L’autore, nel raccontare la storia della sua famiglia negli anni drammatici che precedettero la seconda guerra mondiale, è riuscito a mostrare come l’appartenenza dei suoi cari all’ebraismo fu vissuta in modi profondamente diversi: solo la violenza delle leggi razziali li costrinse a difendere quel patrimonio di valori e alcuni (come il padre Antonello) addirittura con stato d’animo distaccato, assai lontano da una pratica religiosa di rigida osservanza. Questo è il primo elemento distintivo del libro che sorprende il lettore comune: l’atteggiamento dei Gerbi verso la religione e le tradizioni ebraiche; un atteggiamento sofferto, quasi obbligato dagli eventi crudeli di quegli anni, descritto da un cugino del padre di Sandro, Paolo Treves, in una pagina illuminante della sua autobiografia: “L’autore di questo libro è anche ebreo (corsivo mio). Per la verità, solo quando cominciò la lotta antisemita in Italia questo fatto emerse dal complesso della sua personalità di uomo, e solo da allora se ne sentì particolarmente fiero. Prima non si era mai fermato col pensiero su questo fatto (S. GERBI, Ebrei riluttanti…cit., pag.19). 
Il libro di S. Gerbi, Ebrei riluttanti, Hoepli, Milano 2019.
I Gerbi erano giunti a Milano nel 1919 quando il nonno di Sandro, Edmo, aveva lasciato Roma per fissare la sua residenza nella città ambrosiana, ove lavorò per alcuni anni come agente di borsa. Si trattava di una famiglia della ricca borghesia italiana, composta, oltre che da Edmo (1874-1944), dalla moglie Iginia Levi (1878-1926) e dai tre figli Antonello (1904-1976), Giuliano (1905-1976) e Claudio (1907-1990). Da notare che la sorella di Iginia, Olga, aveva sposato il celebre politico socialista Claudio Treves e aveva avuto due figli, uno dei quali era il già citato Paolo (1908-1958). 
Il libro è scritto nello stile semplice ed elegante della migliore memorialistica, ricco di aneddoti, il che ne rende ancor più gradita la lettura. L’autore non racconta soltanto la storia della famiglia, ma si occupa in misura notevole di ricostruire il filo della sua esistenza dalla giovinezza fino agli anni più recenti. Alcune pagine sono dedicate al periodo della sua formazione nella Milano degli anni Cinquanta: colpisce il ricordo, velato da una certa nostalgia, della figura imponente e intellettualmente stimolante del professore di religione al liceo Manzoni, don Giovanni Barbareschi, le cui lezioni Gerbi aveva frequentato pur non essendovi costretto in forza della sua fede ebraica. 
Tra i ricordi – tutti rigorosamente documentati in una preziosa Nota al testo situata in fondo al libro alle pp.137-152  – spiccano gli incontri con persone illustri della cultura e della società italiana, dal filosofo ungherese Gyorgy Lukàcs all'antico direttore del “Corriere della Sera” Ugo Stille, dall’agente letterario Erich Linder al celebre giornalista Indro Montanelli: con quest'ultimo, che dirigeva sul "Corriere della Sera" la popolare rubrica "La Stanza di Montanelli", Gerbi ebbe nel 1999 una querelle sulle posizioni antiebraiche del leader neofascista Giorgio Almirante.
La seconda ragione per la quale il libro di Gerbi è un’opera di notevole interesse risiede a mio giudizio nell’aver mostrato efficacemente il dramma dell’esilio che colpì tante famiglie ebree alla fine degli anni Trenta:  uomini e donne costretti a lasciare la patria in seguito al clima di discriminazione e di isolamento culminato nell’introduzione delle famigerate leggi razziali.  Un dramma, questo dell’esilio, su cui l’autore si sofferma brevemente nella prima parte del volume, Exodus, ove ricostruisce con cura le sofferte vicende dei suoi cari. Mi limiterò a ricordare in questa sede i casi di Antonello, Claudio e Giuliano Gerbi.
Antonello, storico assai stimato da Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ricopriva dal 1932 l’ufficio di capo dell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana guidata dal banchiere Raffaele Mattioli. Inviato a Lima - ufficialmente per adempiere a un compito amministrativo presso un istituto controllato dalla Comit, il Banco Italiano Lima -  il giovane storico dovette rassegnarsi a vivere oltreoceano a causa delle normative antisemite emanate in Italia alla fine del 1938. L’assunzione in pianta stabile come responsabile dell’ufficio studi del Banco, avvenuta poco dopo, gli consentì di mantenere un tenore di vita dignitoso in Perù. La nostalgia per l’Italia e per gli amici lasciati a Milano rimase però vivissima: essa si acuì durante la guerra e negli anni immediatamente successivi. Un sentimento che ben traspariva nel suo motto “Non perire al Perù!”. Solo nel 1948 Antonello e la sua famiglia avrebbero fatto ritorno in Italia. 
Claudio Gerbi fotografato durante l’attesa per l’imbarco sul Conte di Savoia, nave diretta a New York, 14 settembre 1938,
Tornando alla sua partenza per l’America, avvenuta il 19 ottobre 1938, essa seguì di un mese quella del fratello Claudio, che a Milano esercitava onorevolmente la professione di medico internista. In questo caso l’esilio dovette essere più difficile da sopportare perché, se per Antonello – come si è appena ricordato - il viaggio in Perù era stato pensato inizialmente come una missione di lavoro, per Claudio lasciare l’Italia significò chiudere definitivamente con la sua professione milanese e tentare la fortuna oltreoceano senza alcuna certezza di trovare un’occupazione. Giunto a New York con 175 dollari, trovò una sistemazione dapprima a Cleveland come assistente di un patologo, poi a Boston; nel 1942 riuscì ad aprire uno studio a Manhattan, ove esercitò onorevolmente la sua professione medica fino all’età di ottant’anni. Memorabile il suo adagio per tranquillizzare i pazienti affetti da ipocondria: “Esistono le malattie lievi e quelle gravi: per le prime basta una spremuta d’arancio, per le seconde raccomando un paio di aspirine!” (S. Gerbi, Ebrei erranti…cit., pag.23). 
I tre fratelli Gerbi a New York nell’ottobre 1945, Da sinistra: Claudio, Giuliano, Antonello.
Il secondo fratello di Antonello, Giuliano, era invece un brillante giornalista sportivo; aveva lavorato per la testata “L’Ambrosiano” e alla fine degli anni Trenta era stato assunto all’EIAR, l’ente italiano per le audizioni radiofoniche; qui si era guadagnato una certa popolarità in occasione del Tour de France avvenuto nell’estate 1938, quando svolse alla radio un appassionato resoconto della gara vinta da Gino Bartali; una bravura che non bastò però a salvargli il posto. Anche lui dovette lasciare l’Italia nell’autunno di quell’anno a causa delle leggi antisemite. Giunto a Parigi, fu aiutato inizialmente dal corrispondente del “Corriere della Sera”, Paolo Monelli, che gli diede lavoro affidandogli la stesura di alcuni articoli. Un’occupazione destinata a finire ben presto: il direttore del quotidiano di via Solferino, Aldo Borelli, venuto a sapere che Monelli aveva alle sue dipendenze un giornalista ebreo, vietò al collega di servirsi ulteriormente della sua collaborazione. Grazie all’aiuto del liberale Giovanni Malagodi, che aveva incontrato proprio a Parigi, Giuliano Gerbi riuscì così a trasferirsi oltreoceano: ricoprì un modesto impiego di banca dapprima a Barranquilla, un malfamato porto colombiano, poi a Bogotà. Per Giuliano la nuova vita in America fu deprimente, confinato in un Paese cui si sentiva estraneo, costretto a svolgere un impiego che non corrispondeva certamente alle sue attese professionali. 

Nella primavera del 1942 si trasferì a Boston, ove risiedeva a quei tempi il fratello Claudio, nella speranza di trovare migliori opportunità di lavoro. Dopo aver esercitato per qualche tempo la modesta professione di contabile in una ditta che vendeva abiti a rate, la svolta arrivò quando fu assunto da una radio italiana con sede a New York: qui poté riprendere finalmente il lavoro del giornalista radiofonico che era la sua autentica passione. 

Durante la guerra le sue trasmissioni furono seguite in Europa non solo dai soldati americani, ma anche da tanti italiani che, sintonizzandosi sulle onde della “Voice of America”, ritrovarono la voce inconfondibile del giornalista sportivo. Al termine del conflitto Giuliano continuò a lavorare per diverse emittenti americane. Una di queste, la WOV, gli affidò la conduzione di un originale programma finanziato da una ditta alimentare, la “Progresso”: l’idea era di incrementare le vendite presso la comunità italo americana di New York realizzando la seguente offerta commerciale: “mandateci dieci etichette dei nostri pomodori pelati e in cambio noi vi faremo ascoltare alla radio le voci dei vostri cari rimasti in Italia”. 

Giuliano si dedicò a questa impresa nel corso degli anni Cinquanta, un incarico che gli consentì finalmente di far ritorno in Italia.  Come ricorda Sandro Gerbi, i viaggi dello zio furono innumerevoli, tutti alla ricerca delle famiglie da intervistare: egli registrava scrupolosamente le conversazioni su bobine che venivano poi spedite negli Stati Uniti corredate dai suoi commenti in impeccabile inglese. Il successo della trasmissione fu di tale entità che nel 1953 si giunse a trasmettere diciotto puntate alla settimana. 

Riapertura dei Navigli: Sala apre il débat public

All’incontro tenuto oggi nella Sala Alessi di Palazzo Marino il sindaco Giuseppe Sala e l’assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open Data Lorenzo Lipparini hanno presentato il progetto di riapertura dei navigli milanesi, dando il via a una pubblica discussione sul modello del debat public francese: da oggi fino a settembre i cittadini potranno intervenire esprimendosi sul progetto con critiche, proposte, miglioramenti. Nei prossimi giorni saranno previsti sul tema incontri pubblici organizzati da un garante imparziale, il dottor Andrea Pillon.

Il calendario degli incontri è accessibile su un sito internet attivato dal Comune, ove i cittadini potranno iscriversi, intervenire ai dibattiti e caricare sulla piattaforma informatica documenti contenenti le loro proposte.

La necessità di coinvolgere la cittadinanza è dovuta all’effettiva complessità della riapertura nel suo insieme. Difatti la realizzazione di un canale lungo 7,7 chilometri in una parte della periferia nord (via Melchiorre Gioia) e in una zona importante del centro, determinerà l’avvio di lavori pubblici che recheranno disagi alla mobilità veicolare nella fase transitoria. D’altra parte occorre rilevare che l’utilizzo degli stessi cantieri della M4 in centro e l’apertura di pochi altri siti in periferia, consentirà di limitare il più possibile gli ostacoli alla mobilità.

Il piano prevede due fasi. La prima, che avrà inizio nei prossimi anni, prevede la posa di una tubazione sotterranea di 2 metri di diametro che garantirà la continuità idraulica lungo i 7,7 km del tracciato fino alla Darsena di Porta Ticinese: oltre a migliorare l’irrigazione dei campi nel parco agricolo Sud Milano, tale tubazione costituirà una infrastruttura per le nuove pompe di calore che sostituiranno le caldaie inquinanti . La riapertura viene così a sposarsi con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento cittadino provocato dagli scarichi dei condomini. La tubazione fornirà inoltre l’acqua pulita della Martesana ai cinque tratti di naviglio che verranno aperti in questa prima fase, rendendo possibile in prospettiva il secondo step della riapertura integrale.  I cinque tratti di canale che verranno riaperti nella prima fase sono i seguenti:

Il Naviglio riaperto in via Francesco Sforza: immagine elaborata da MM.

1)     820 metri in via Melchiorre Gioia da Cassina de’ Pomm a via Carissimi;

2)     240 metri nel primo tratto di via san Marco ove si trova l’antico tracciato del Naviglio con la storica Conca dell’Incoronata ricordata da Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico.

3)     520 metri in via Francesco Sforza tra corso di Porta Vittoria e Corso di Porta Romana, in un’area ove si trovano l’Università degli Studi di Milano, il Giardino della Guastalla e l’Ospedale Policlinico.

4)     300 metri in via Molino delle Armi nel parco delle Basiliche tra le chiese San Lorenzo e Sant’Eustorgio;

5)     260 metri tra la Darsena e via Ronzoni mediante la ricostruzione e riattivazione della storica conca di Viarenna.

La seconda fase (entro 2030) riguarderà invece la riapertura totale dei restanti 5 km di canale in via Melchiorre Gioia, in via San Marco, via Fatebenefratelli, via Senato, via San Damiano, via Visconti di Modrone, via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi, via De Amicis e via Conca del Naviglio.

Come ha ricordato il sindaco Sala, gli incontri pubblici hanno l’obiettivo di mostrare ai cittadini i pro e i contro della riapertura. Oltre ai lavori pubblici, verranno illustrati i costi dell’operazione e le modifiche che la realizzazione dei canali navigabili in centro determinerà nella viabilità se il progetto dovesse essere realizzato.

Sala ha tuttavia precisato che la gradualità delle operazioni (articolate in due fasi) permetterà di gestire la situazione senza eccessivi intralci per i cittadini. Inoltre le periferie non saranno penalizzate, ma al contrario valorizzate: ad esempio la riapertura della Martesana in via Melchiorre Gioia consentirà di superare la problematica realtà di quel quartiere (oggi invivibile) grazie a una infrastruttura ove acqua, verde e spazi per nuovi esercizi commerciali giocheranno un ruolo importante nel migliorare la vivibilità della zona.

Il Naviglio in via San Marco. Immagine elaborata da MM.

“La riapertura dei navigli non è operazione nostalgica ma costituisce il riconoscimento del ruolo centrale che l’acqua ha sempre avuto nella storia di Milano” ha affermato il sindaco Sala, aggiungendo che le grandi città del mondo stanno investendo nelle reti di canali. “L’acqua è un elemento che, accanto al verde, la gente apprezza notevolmente come insegna il caso di Chicago”. D’altra parte, basta guardare ai casi di città quali Amsterdam, San Pietroburgo, Amburgo, Parigi, Londra, Vienna e Berlino per rendersene conto.

C’è però una seconda ragione che spiega l’importanza della riapertura dei navigli per Milano. La riattivazione dei canali in centro e in periferia si sposa bene con la politica ambientale che la città intende perseguire nei prossimi anni riducendo la distanza che, sul piano della qualità della vita, la separa ancora dalle metropoli più avanzate. “Tra dodici anni” – ha detto il sindaco – “Milano passerà da 51 macchine ogni 100 abitanti a 40 macchine come avviene nelle maggiori città europee”. La mobilità dei cittadini cambierà radicalmente: l’uso dell’automobile privata si ridurrà a vantaggio di un’ampia disponibilità di mezzi pubblici. La riapertura dei Navigli si inserisce coerentemente in tale visione ambientale: la M4 sarà aperta lungo la cerchia dei canali favorendo gli spostamenti veloci per ragioni di lavoro. Inoltre, la metropolitana estesa fino a Monza consentirà una forte riduzione del traffico automobilistico da Nord-Est. Il divieto dell’ingresso in città dei Diesel Euro 1,2,3, a partire dalla fine di gennaio 2019, ridurrà ulteriormente il numero di auto in città, come sta avvenendo nelle altre metropoli europee.

Perché la Lombardia Sì merita più autonomia

Mancano ormai poche ore all’apertura dei seggi per il referendum sull’autonomia della Lombardia.

Chi ha letto i miei articoli sul Monitore sa che mi sono battuto in passato per una riforma della Costituzione in senso autenticamente federale. Purtroppo la Costituzione italiana non è una Costituzione federale. Tuttavia  la riforma della Carta avvenuta nel 2001 (approvata dagli italiani con referendum) ha attribuito maggiori autonomie alle Regioni e prevede addirittura una procedura che consente di accrescere ulteriormente i loro poteri mediante un’intesa con il governo centrale approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta: è una via che porterebbe a un regionalismo differenziato assai vicino al federalismo, una via pensata per quelle Regioni – come Lombardia, Veneto e tante altre con conti in ordine e servizi efficienti – che si sentissero pronte per esercitare  nuove funzioni con le relative risorse. E’ quanto prescrive l’articolo 116, terzo comma della Costituzione.

Maroni e Zaia, i due governatori di Lombardia e Veneto che hanno organizzato i referendum nelle rispettive Regioni, chiedono il consenso dei cittadini a trattare con Roma migliori condizioni di autonomia. Molti, soprattutto nel centrosinistra, hanno criticato la decisione di spendere risorse pubbliche per i referendum:  sostengono che i due governatori avrebbero potuto trattare direttamente con il governo centrale come sta facendo in questi mesi il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. In realtà, occorre rilevare che l’Emilia – gestita da un’amministrazione di centrosinistra – ha deciso di trattare con il governo (di centrosinistra) solo dopo che Maroni e Zaia avevano annunciato la decisione di indire i referendum per l’autonomia. Se i due governatori lombardo veneti non si fossero mossi in tal senso, è difficile pensare che l’Emilia si sarebbe spinta fino a chiedere ulteriori poteri al governo centrale. In secondo luogo, Maroni e Zaia hanno organizzato i referendum nel pieno rispetto di  un’ordinanza della Corte costituzionale, che nel 2001 ha stabilito che nel caso di “scelte fondamentali di livello costituzionale” tra Regione e Stato, sia del tutto legittimo ricorrere a una consultazione referendaria. L’attribuzione di ulteriori poteri a una Regione ex articolo 116, terzo comma, è certamente una scelta fondamentale di livello costituzionale perché renderebbe Lombardia e Veneto due Regioni “speciali” con poteri e attribuzioni vicini a quelli del Trentino o del Friuli Venezia Giulia. In attesa di una riforma costituzionale in senso autenticamente federale, credo che la via ex art.116 terzo comma, sia lo strumento migliore per garantire maggiore autonomia al Lombardo Veneto. Per questo motivo andrò a votare e voterò Sì al referendum.

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Il Governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni

Non mi aspetto certamente che le cose cambino tutto d’un tratto. E’ difficile che il governo centrale, da sempre condizionato dagli interessi corporativi della burocrazia romana, sia disposto a sedersi a un tavolo per attribuire realmente più poteri e risorse alle due Regioni. Un’alta affluenza alle urne e una vittoria imponente dei Sì suonerebbero tuttavia come un campanello d’allarme per la classe politica romana, rendendola consapevole che una riforma costituzionale non potrà prescindere in futuro da un assetto rigorosamente federale dei pubblici poteri. Ricordo che nella riforma costituzionale del centrosinistra bocciata dagli italiani il 4 dicembre 2016, il federalismo era assente e si era deciso addirittura di limitare i poteri delle Regioni. Ecco, non foss’altro che per riportare al centro la questione delle autonomie, val la pena recarsi al seggio e votare Sì.

La Lombardia e il Veneto hanno saputo assicurare ai cittadini servizi pubblici di qualità. Certo, casi di malversazione e di corruzione si sono verificati anche al Nord. C’è ancora molto da fare per migliorare in molti settori. Eppure, se paragoniamo questi servizi con quelli di altri territori in Italia, le due Regioni si pongono in vetta alla classifica.

Inoltre mi sembra legittimo che una Regione come la Lombardia – la cui cultura di autogoverno e autoamministrazione risale in molti casi ai secoli della dominazione asburgica – possa disporre di maggiori risorse ed estendere le proprie competenze esclusive in settori quali la giustizia di pace, la tutela ambientale, la tutela della cultura, la gestione dell’istruzione, l’agricoltura, l’ordinamento comunale e tanti altri. Che senso ha che a Roma vengano gestiti servizi che la Regione può assicurare meglio e a un costo minore? Lo stesso vale per il Veneto.

Secondo i sostenitori del No – presenti soprattutto in una parte del centro-sinistra – l’attribuzione alla Lombardia di ulteriori competenze, oggi gestite in tutto o in parte dallo Stato centrale, porterebbe a una retrocessione dell’Italia in campo europeo. Un’Italia in cui Lombardia e Veneto avessero all’incirca le stesse competenze del Trentino Alto Adige – dicono – finirebbe per essere uno Stato diviso, frammentato, privo di spina dorsale. In secondo luogo, ritengono che l’idea di una Lombardia autonoma, “fai da te”, sia anacronistica, legata a un periodo storico – gli anni Novanta – definitivamente passato.

Sono due tesi che mi trovano in disaccordo. Quanto alla seconda, basta guardare a quanto sta accadendo in Catalogna. Siamo proprio sicuri che le piccole patrie siano al tramonto? O non stiamo forse entrando in un’epoca in cui i bisogni dei cittadini si fanno sempre più complessi e richiedono apparati pubblici snelli, i cui servizi siano maggiormente soggetti al controllo della comunità locale? Certo, c’è una grande differenza tra la Catalogna e il Lombardo Veneto. La prima ha indetto un referendum sull’indipendenza violando la Costituzione spagnola. In Lombardia e Veneto si terranno al contrario due referendum sull’attribuzione di maggiori autonomie nel pieno rispetto della Costituzione.

La prima argomentazione rivela invece la mancanza di cultura federale in molta parte della classe dirigente e della classe politica di questo Paese. Il modello di riferimento resta quello giacobino dello Stato unitario, di un’Italia ancora pensata come un corpo vivente i cui organi – le Regioni – possono svolgere le loro funzioni purché stiano accucciati sotto il potere centrale, subordinati ai supremi interessi di una Nazione rappresentata come un blocco immutabile. Riferirsi all’Italia – come fanno i detrattori del referendum lombardo – con espressioni quali “spina dorsale” per indicare la necessità di un Paese forte, potente, capace di decidere contro ogni presunta divisione rappresentata dalle autonomie speciali, è segno di una visione nazionalista che sacrifica ogni diversità sull’altare di un’artificiosa unità.

Settant’anni di Repubblica unitaria non hanno ridotto le diseguaglianze tra Nord e Sud; le hanno accresciute. Colpevole dei mali italiani non è quindi il federalismo, che in Italia non è mai esistito. I nostri difetti risiedono piuttosto nella struttura rigidamente burocratica dei pubblici poteri, nella cultura formalistica di uno Stato le cui leggi sono lunghe, oscure e cavillose; in un’amministrazione statale farraginosa, lenta e costosa, ingabbiata in un formalismo normativo che lascia in secondo piano l’attenzione al risultato, al fine da raggiungere. Occorre al contrario che lo Stato centrale si ritiri da alcuni servizi pubblici, lasciando alle Regioni virtuose i poteri e le risorse per esercitare quelle funzioni con maggiore efficienza nell’interesse dei cittadini.

Guardiamo all’estero, ai Paesi governati da una Costituzione federale. In Germania il federalismo non ha affatto indebolito l’unità dei tedeschi. Un bavarese o un cittadino del Baden si sentono diversi da un berlinese, come quest’ultimo da un cittadino della Sassonia: tutti e quattro sono coscienti di avere tradizioni, stili di vita, istituzioni politico amministrative differenti; nelle loro Regioni (i Länder) risiede una parte significativa dell’amministrazione pubblica e la stessa legislazione sugli enti locali è di competenza regionale. Eppure tutti questi cittadini si riconoscono nelle istituzioni federali del loro Paese, si sentono tedeschi. L’Italia presenta da sempre un policentrismo, un particolarismo territoriale che è per certi versi assai simile a quello tedesco. A me sembra che il federalismo costruito a partire dalle Regioni – alcune delle quali unite in Macroregioni – possa avvicinare i cittadini alle istituzioni della Repubblica. E’ così che l’Unità si costruisce dal basso, dalle Comunità territoriali in cui i cittadini si riconoscono. L’Unità artificiosa costruita dall’alto ha finito per converso con l’allontanare i cittadini dalle istituzioni. I dati sull’affluenza alle urne sono lì a ricordarcelo.

Non basta. Più autonomia significa che maggiori fondi verrebbero trasferiti dallo Stato in Lombardia come avviene oggi in Trentino: risorse che la Regione potrà investire in tanti settori a sostegno dell’economia locale. Questo, com’è facile immaginare, consentirebbe di incrementare ulteriormente il ruolo di Milano, ma anche di potenziare lo sviluppo della Lombardia accrescendo il suo ruolo di locomotiva del Paese a beneficio di tutta l’Italia. La piccola patria lombarda, libera di agire in modo responsabile senza dipendere dai vincoli burocratici dello Stato centrale, potrebbe essere un esempio di buona amministrazione in tanti campi che oggi sono inspiegabilmente sottratti alla competenza delle Regioni. Più risorse quindi, maggiori funzioni, più responsabilità perché la Lombardia le merita. La prossima sfida sarà riportare il tema delle autonomie al centro delle riforme costituzionali perché il federalismo è gestione, tutela e salvaguardia delle diversità in un ordinamento in cui le istituzioni territoriali sono in concorrenza tra loro.

 

Dall’Università Statale quattro progetti di business sui beni sequestrati alla mafia

Restituire alla legalità i beni sequestrati alla mafia mediante la realizzazione di progetti tesi ad avviare imprese autosufficienti, che siano in grado di reggersi sulle proprie gambe creando valore in zone dominate un tempo dal malaffare e dalla criminalità organizzata. Questa la mission che i docenti dell’Università Statale di Milano e del Politecnico hanno affidato agli studenti del corso di Laurea in Management dell’innovazione e dell’imprenditorialità, chiamandoli a partecipare al Laboratorio “riuso beni confiscati alla mafia”.

L’iniziativa, promossa dal Centro Studi Grande Milano (CSGM), dalla Città metropolitana di Milano, dalla Scuola di Design del Politecnico, dallo Studio Legale Sutti, è stata presentata ieri mattina nella sala lauree dell’Università Statale di Milano, in via Conservatorio 7, alla presenza di Daniela Mainini, consigliere in Regione Lombardia e presidente del CSGM, Arianna Censi, vicesindaco della Città metropolitana di Milano, Gian Antonio Girelli, presidente della Commissione regionale antimafia. Presenti i sindaci dei Comuni metropolitani nel cui territorio si trovano le proprietà confiscate alla criminalità: Giambattista Maiorano, sindaco di Buccinasco; Yuri Santagostino, sindaco di Cornaredo; Sergio Perfetti, sindaco di Gaggiano; Barbara Agogliati, sindaco di Rozzano.

Il professor Mario Benassi, che ha seguito da vicino i lavori degli studenti del corso di laurea, ha spiegato il senso dell’iniziativa, ricordando che “si è lavorato su idee che potessero produrre utilità”, stimolando la creatività dei giovani nell’immaginare “attività autosufficienti sul piano economico”, imprese di successo che possano abbattere il degrado di alcune zone della periferia metropolitana. “In Italia e in Lombardia ci sono asset (ville, palazzi, terreni imprese) che sono stati sottratti alla mafia e sono nella disponibilità dei comuni. Gran parte di questi beni è inutilizzato: noi abbiamo sviluppato progetti di business che possano generare ricchezza per la cittadinanza”.

Gli studenti, divisi in quattro gruppi, sono stati assistiti nel lavoro da un team di designers, architetti, avvocati, giuristi. I progetti sono stati coordinati da Roberto Poli (Centro Studi Grande Milano), dall’avvocato Simona Cazzaniga (Studio Legale Sutti), dalla Professoressa Ada Cattaneo (IULM), dal professor Luigi Bandini Buti (Polimi) e dal dottor Stefano Balzarotti (consigliere comunale di Abbiategrasso).

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Il progetto di Gaggiano con l’indicazione delle tre zone.

Il primo lavoro si è concentrato su un terreno di 4 ettari sito nel Comune di Gaggiano, località San Vito. Il terreno fa parte del Bosco dei 100 passi, un’area già sottratta in passato alla criminalità organizzata, trasformata in un vasto parco di 17 ettari con 1500 alberi piantumati, un laghetto, un percorso ciclopedonale. Gli studenti hanno chiamato questo terreno il “Giardino del primo passo”, il primo da percorrere per entrare nel più ampio bosco dei cento passi. La proposta ha preso a modello i Prinzessinnengarten di Berlino, un’area che in Germania si è riusciti a sottrarre al degrado mediante la realizzazione di un orto urbano con caffetteria e ristorante. Il progetto prevede di dividere il giardino di Gaggiano in tre zone: una “zona parco” a sua volta articolata in quattro aree (area relax con tavoli da gioco e piste da bocce; area cani; area sport con la disponibilità di attrezzature per l’attività ginnica e percorsi salute;  area bambini); una “zona orti” che, sul modello dei già citati prinzessinengarten, affidi le aree agricole ad associazioni che facciano coltivare la terra a persone in difficoltà, ma anche a ragazzi, studenti, anziani del posto; infine una “zona eventi” per l’esposizione e la vendita dei prodotti degli orti. Gli studenti ritengono che i costi di avviamento del progetto, previsti intorno ai 100.000 euro, possano essere sostenuti mediante il ricorso a bandi di finanziamento della Fondazione Ticino Olona o della Fondazione Cariplo.

Il secondo gruppo si è occupato invece di una villa situata nel territorio del Comune di Buccinasco, in via Odessa, confiscata alla famiglia Sergi. Gli studenti hanno pensato di valorizzare questi spazi con attività in campo economico e sociale: un’ortofrutta al piano terra per la vendita dei prodotti del territorio ed ecosostenibili (latticini e marmellate) con servizio di delivery via bike e furgone; al primo piano un bar, un locale di ritrovo per giovani aperto anche di sera per gli aperitivi e una stanza per incontri di associazioni o presentazioni di attività culturali; la mansarda dovrebbe fungere da ufficio per il personale. Questo progetto, come gli altri tre, sono il risultato di una serie di incontri tra gli studenti e gli operatori del territorio, aziende interessate ad investire e a partecipare a tali iniziative.

Il terzo gruppo ha lavorato a un progetto di riuso centrato su un immobile nel Comune di Cornaredo, in via Vanzago. Appartenuto al boss dell’ndrangheta Costantino Mangeruca, è stato confiscato e da anni attende un intervento che possa restituirlo alla cittadinanza. Si tratta di un vasto edificio con una superficie complessiva di 1500 metri quadrati diviso in una parte seminterrata con garage, in un primo piano e in un sottotetto con piccola terrazza. Gli studenti hanno pensato di costituire al primo piano un laboratorio Wood Lab per il restyling e il restauro di motociclette o biciclette; gli spazi dell’immobile verrebbero gestiti da un’impresa, Do It, la cui tessera associativa consentirebbe l’accesso ai cinque spazi nello stabile per persone che intendono lavorare all’interno dello stabile nell’attività di restauro dei motocicli. Nel seminterrato dovrebbe essere collocato un magazzino e nel garage uno spazio per i macchinari di falegnameria. Nel sottotetto e nella terrazza si è pensato invece a un’area relax e ristoro con servizio bar, spazio per l’esposizione di mostre e la presentazione di libri.

Una villa risalente agli anni Settanta del secolo scorso, situata nel Comune di Rozzano, è stata al centro del progetto del quarto gruppo. L’immobile, situato in via Molise, si trova in un contesto di grande interesse culturale e paesaggistico, non molto distante dal castello visconteo di Cassino Scanasio. Gli studenti hanno pensato di utilizzare gli spazi della villa per due tipi di attività: al pianterreno un centro diurno per anziani, al primo piano un asilo nido. Il giardino potrebbe essere valorizzato mediante la creazione di spazi di ritrovo per gli anziani e di spazi giochi per i bimbi. La realizzazione di un’attività destinata ad unire, facendole dialogare, due fasce di età tanto distanti tra loro si ispira ad alcuni casi come ad esempio Providence Mount St. Vincent a Seattle, Anziani e Bambini insieme a Piacenza. Con la formazione di un asilo nido e di un centro per anziani gli studenti hanno voluto avvicinare queste due generazioni. L’obiettivo è restituire una funzione agli anziani troppo spesso soli ed emarginati: quella di adulti responsabili a contatto con i bimbi. I costi di avviamento, pari a 200.000 euro, sono alquanto elevati a causa dello stato di decadimento in cui versa la villa, da anni in stato di abbandono.

 

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Da sinistra a destra: Arianna Censi, Mario Benassi, Daniela Mainini, Gian Antonio Girelli

Daniela Mainini, nel commentare i lavori degli studenti, ha elogiato il contenuto dei progetti il cui merito non consiste soltanto nel voler restituire valore ai beni confiscati alla mafia – simbolo di una lotta per la legalità che ha avuto successo – ma anche nel proporre soluzioni di business che possano offrire ai giovani spazi per crescere e realizzarsi professionalmente. “Nei beni confiscati alla mafia c’è una lotta di successo, nel restituire alla legalità un bene che è stato per anni nel buio dell’illegalità. E’ una gioia premiare la creatività di studenti che si sono impegnati in progetti credibili e concreti”.

Le Memorie di Caroli: un prezioso album di ritratti

Il libro di Flavio Caroli, Memorie di artisti e di bastardi (Torino, Utet libri, 2017) è una collezione di brevi ricordi, memorie di incontri raccolte quasi a voler costituire un album di ritratti dedicati agli artisti che l’autore ha incontrato nel corso della sua vita di studioso.

Il volume è stato presentato ieri sera a Palazzo Reale in un interessante incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano (CSGM) nel quale sono intervenuti Filippo Del Corno, assessore alla cultura del Comune di Milano, l’avvocato Daniela Mainini, consigliere in Regione Lombardia e Presidente del CSGM; Domenico Piraina, Direttore del Palazzo Reale; Gian Arturo Ferrari, Vice Presidente Mondadori Libri; Carlo Tognoli, ex Sindaco di Milano.

Il libro, come Caroli ha ricordato nel suo discorso di presentazione dinanzi a un folto pubblico di appassionati, presenta episodi di vita reale che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea: una materia alquanto difficile da “far digerire” perché accolta da un atteggiamento generale di sospetto per le opere eccentriche degli artisti. Eppure, come ci ricorda il professor Caroli con la sua rigorosa analisi di “scienziato dell’arte”, anche tali opere sono legate tra loro da un filo rosso che spiega la loro genesi nel contesto storico in cui sono nate: “non hanno sempre prodotto successi pari alle intenzioni degli artisti che le avevano create” ricorda l’autore, “ma l’opera c’è stata segnando nel bene e nel male un intero periodo storico”.

In fondo, nelle memorie dei suoi incontri, Caroli non solo ha ricordato un periodo della sua vita, ma ha saputo ritrarre l’anima dell’artista nella sua tormentata esistenza. Nel libro risaltano così preziosi spaccati di vita quotidiana che spiegano la genesi di capolavori dell’arte contemporanea, compreso il mondo del cinema.

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Monica Vitti in Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, 1964

E’ il caso di Michelangelo Antonioni. Caroli ricorda di aver assistito a Roma, nel 1963, a una parte delle riprese di Deserto Rosso ove una Monica Vitti, assonnata, non truccata, compariva a lato di un carretto di frutta e verdura dietro il quale si intravedeva un vecchio ambulante. Caroli ricorda l’insoddisfazione di Antonioni per i colori naturali della frutta: “lì, quando vidi che il regista faceva colorare la frutta e perfino gli abiti del vecchio perché apparissero nel film in tinte cromatiche più scure, iniziai a capire la peculiare concezione che Antonioni aveva del paesaggio, paesaggio come stato d’animo; uno stile che si coglie in modo ancor più incisivo nel film Il Mistero di Oberwald ove Antonioni, sempre all’avanguardia nel saper sfruttare gli ultimi ritrovati della tecnologia, colorò le scene con tecniche digitali”.

Un evento ricordato nel libro è la Biennale di Venezia del 1964, quando in un’Europa immersa nella guerra fredda, “quasi congelata dalle opere della tradizione artistica informale, sbarcarono, tirati giù dai barconi approdati al lido, i colossi americani della Pop Art”.

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Gino De Dominicis, “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua”, 1969.

Molti gli incontri ricordati da Caroli negli anni Settanta. Val la pena ricordare a tal proposito quello con Gino De Dominicis (1947-1998). In un periodo ove per la prima volta gli artisti ricorrevano a spezzoni di filmati per la creazione dell’opera d’arte, un episodio bizzarro fu la preparazione del video che De Dominicis intendeva dedicare al tema della “trasmutazione dei pesci in colombe”. Per le riprese romane sulle rive del Tevere, Caroli ricorda che l’artista aveva portato due stie di colombe bianche, adagiandole sull’acqua. Il programma era questo: aperte le stie, le colombe avrebbero offerto all’artista l’attimo decisivo per filmare il loro spiccare in volo. Le cose andarono però in tutt’altro modo. Le colombe, le cui ali erano inzuppate dalle acque, non ebbero la forza di levarsi in volo e furono raccolte fortunosamente da alcuni colleghi nel corso di una faticosa opera di recupero. Deluso per la dura lezione che i fatti avevano impartito alla sua facile immaginazione, De Dominicis si limitò – più prosaicamente – a girare un filmato in cui compariva lui stesso, ripreso di spalle. Titolo dell’opera “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua”.

Un altro artista è Lucio Dalla (1943-2012). “Ci vedevamo a Roma, a tarda sera, in un bar della Stazione Termini verso l’una di notte” ricorda il professore “Io e lui avevamo in comune l’abitudine di prendere un cappuccino nello stesso bar alle ore piccole. In uno di quegli incontri ricordo che mi disse: ‘Sai, Roma nelle notti di primavera mi sembra un’astronave che parte per viaggi misteriosi’. Alcuni anni dopo, nel 1980, Lucia Dalla cantò uno dei suoi capolavori, La Sera dei Miracoli: una canzone in cui ‘i vicoli di Roma’ prendevano vita assumendo i caratteri che lui mi aveva descritto in quel nostro conversare notturno in stazione”.

Un altro incontro che ha segnato i ricordi del professor Caroli è quello con Andy Warhol (1928-1987) avvenuto alla metà degli anni Settanta nella casa newyorkese dell’artista. “Un uomo freddo agli inizi, circondato dai macabri e bizzarri oggetti della sua abitazione, tra teschi e falli. Era ossessionato dalla morte ma si illuminò improvvisamente quando gli parlai di Pasolini: fu allora che si sciolse e mi raccontò del legame che aveva avuto con lui. Warhol, da freddo qual era, diventò in quell’attimo umanissimo”.

Questi sono solo alcuni degli artisti contemporanei ricordati da Caroli nel suo libro di memorie. In fondo, il filo rosso che lega questi incontri è la loro capacità di cogliere l’attimo perfetto in cui la bellezza si compie.