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Riapertura dei Navigli: un’occasione da non perdere

Nello scorso weekend il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è recato a Chicago per partecipare a un convegno sulle “Urban Waterways”. Invitato ad intervenire dal sindaco di Chicago Emanuel Rahm, Sala ha parlato delle grandi opportunità che la riapertura dei Navigli potrebbe portare a Milano nell’incremento del turismo e nel decisivo miglioramento della qualità della vita urbana grazie alla fruizione di più ampi spazi pubblici fatti di verde e di canali.

La riapertura di quasi otto chilometri di naviglio in via Melchiorre Gioia e in centro città, garantendo il collegamento della Martesana con la Darsena di Porta Ticinese, renderebbe possibile la realizzazione di un grande progetto di navigazione turistica su scala milanese, regionale e perfino europea: difatti, qualora fosse realizzata tale opera, uno svizzero di Locarno, un italiano che vive sul Lago di Como, un turista del Lago Maggiore potrebbero raggiungere il centro di Milano attraversando con un servizio di battelli i Navigli Grande, Pavese e Martesana resi completamente navigabili. Si capisce quindi come la riapertura dei questi otto chilometri di canale, in città e in centro città, sia vitale per la riattivazione dell’intero sistema dei navigli lombardi.

Nyhavn
Nyhavn, antico porto di Copenaghen in centro città

La città ambrosiana potrebbe disporre di un’altra risorsa importante per la promozione turistica del territorio in campo internazionale: Milano sarebbe non solo una città lavorativa che potrà contare su una invidiabile rete di trasporto pubblico (con la M4 sarà possibile raggiungere il centro da Linate in 15 minuti!); con la riapertura dei navigli la metropoli ambrosiana sarebbe  attraente sotto il profilo della vivibilità e dell’ambiente: la rete dei canali, riattivata da Pavia fino ai Laghi, consentirà di competere ad armi pari con metropoli quali Amsterdam, Copenaghen, Amburgo e San Pietroburgo. Assieme ai più ampi spazi di verde pubblico che saranno resi possibili grazie al recupero dei sette scali ferroviari, la disponibilità di una rete di canali navigabili metterà Milano nelle condizioni di essere non solo una metropoli del business, ma anche una città in grado di offrire una elevata qualità di vita urbana come città d’acque e del verde.

Perché questo si avveri tra qualche anno, è tuttavia importante che i milanesi partecipino in massa al referendum che l’amministrazione comunale ha indetto in autunno e votino Sì al progetto di riapertura dei navigli. Il costo del progetto, che era stato stimato inizialmente a 400 milioni di euro, è stato da alcuni esperti ridimensionato a poco più di 200 milioni per il risparmio che ad esempio l’utilizzo dei cantieri della M4 in centro città potrebbe recare all’opera di scavo e di apertura del nuovo canale. Il Sindaco Beppe Sala, che è uomo concreto e tutt’altro che sprovveduto, intende disporre però di una stima il più possibile attendibile dei costi. A tal fine ha formato una squadra di esperti che si esprimerà nei prossimi mesi consentendogli di porre i milanesi dinanzi a un progetto preciso ove saranno indicati i costi veri e propri e i mezzi per farvi fronte. La riapertura dei navigli, com’era prevedibile, ha diviso la città in favorevoli e contrari.

Piazza Vetra con il Naviglio
Come sarebbe il Parco delle Basiliche (dietro San Lorenzo e Sant’Eustorgio) con il Naviglio riaperto

Come Urbanfile ha già evidenziato in un post del 14 marzo scorso, la direttrice del Master turismo in Bocconi, Magda Antonioli, ha sottolineato i benefici della riapertura sotto il profilo del turismo e soprattutto dell’accresciuta valorizzazione di alcune zone periferiche: basti pensare al parco della Biblioteca degli Alberi, a piazza Gae Aulenti e al quartiere City Life in via Melchiorre Gioia; in centro città vi sarebbe invece un’ulteriore attrazione turistica grazie al nuovo canale (la cui larghezza media sarebbe di sette metri) in punti che ancora riflettono la struttura urbanistica dell’antico naviglio: via San Marco in zona Brera; piazza Cavour-via Senato vicino al viale alberato di via Marina a due passi dai giardini pubblici di via Palestro e dal parco della Villa Reale; via Francesco Sforza vicino al parco della Guastalla e dietro all’Università Statale; via Molino delle Armi lungo il parco delle Basiliche tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio; via Conca del Naviglio e via De Amicis a pochi metri dal parco dell’Anfiteatro romano.

Non sono mancati però i critici. Luca Beltrami Gadola, in un post del 15 marzo pubblicato sul sito Arcipelago Milano, ha ironizzato sul balletto di cifre in merito ai costi della riapertura. Inoltre, ha fatto osservare che le spese per la manutenzione dei canali sarebbero assai alte, come già è dimostrato – a suo giudizio – da quanto è avvenuto per la Darsena di Porta Ticinese.

“Alle proteste dei residenti e dei promotori del restauro della Darsena, spazio pubblico per eccellenza, il Comune pare abbia risposto che bisogna pur cavare qualche soldo per coprire le spese di gestione, pulizia e manutenzione della Darsena stessa spese che sembra assommino a quasi un milione di euro ogni anno. Il bando era con una base di 35.000 euro. Lungo il cammino da trentacinque al milione!”. Beltrami Gadola si chiede quanto costerà la manutenzione dei nuovi canali.

Amsterdam King's Day Boats
Quest’anno la tradizionale festa King’s Day Boats si terrà ad Amsterdam il 27 aprile!

La domanda è fondata. Sarà interessante nei prossimi mesi leggere la relazione della squadra di esperti messa in campo per volontà del Sindaco Sala. Una cosa però è certa: i canali costano come dappertutto. Lo sa bene chi abita ad Amburgo, a Copenaghen, a Venezia.  Della loro manutenzione se ne occupa il Comune mediante l’impiego delle risorse pubbliche ricavate dalle tasse locali. Può anche succedere tuttavia che il servizio sia gestito da un’azienda privata. E’ il caso di Amsterdam, dove gli interventi sulle fogne e sui canali sono gestiti non solo dal Comune mediante una tassa comunale (la gemeentebelasting), ma anche da una società privata, la Waternet, alla quale i cittadini pagano i servizi di pulizia delle acque (zuiveringsheffing), di pulitura dei canali e del mantenimento del livello d’acqua sufficiente alla navigazione. La Waternet garantisce peraltro a 1 milione e 200.000 olandesi l’accesso alla rete di acqua potabile e garantisce una rete di acque pulite nelle città, nei fiumi e nei laghi intervenendo costantemente alla loro manutenzione. I servizi costano e si pagano dunque, com’è ovvio che sia. I benefici però sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno si sognerebbe di recarsi ad Amsterdam, a Copenaghen, a San Pietroburgo, a Venezia senza fare il giro dei canali lungo la città e i suoi dintorni. Milano può ambire a questo? Certamente sì: lo dimostra la sua storia, ove i navigli in centro città e in campagna, sono stati per secoli una infrastruttura fondamentale per l’economia del territorio e possono continuare ad esserlo per l’industria turistica. Non si capisce per quale motivo Milano non possa tornare ad essere il cuore dei Navigli lombardi.

Battelli sul canale di Amsterdam
Gite in pedalò e in battello in un canale di Amsterdam

Ma torniamo al caso di Amsterdam: nei canali sono in via di sperimentazione alcuni battelli-robot che, oltre a provvedere alla pulizia delle acque, fungono da ponti provvisori per il passaggio delle merci e delle persone in occasione di eventi speciali in cui la città è sovraffollata. Una soluzione che si potrebbe applicare anche a Milano in un futuro non troppo lontano: penso alla settimana della moda o del design. Insomma, nulla vieta che questo connubio tra acqua e tecnologia possa essere sperimentato anche da noi per la manutenzione dei canali.

Via Fatebenefratelli
Come potrebbe essere via Fatebenefratelli all’incrocio con via San Marco se venissero riaperti i Navigli

Questo tuttavia potrà avvenire solo se passerà il referendum sulla riapertura dei navigli, fissato in autunno. L’operazione, com’è ovvio, avrà i suoi costi ma consentirà alla città di tornare a disporre di una rete di canali invidiabile, i cui benefici sul piano dell’industria turistica, dell’ambiente e della qualità della vita saranno tali da ripagare ampiamente le risorse impiegate. I Navigli sono il cuore di Milano. Una Milano senza la sua cerchia interna è una Milano senza cuore. Rendiamoci conto di cosa ci giochiamo con il referendum sulla riapertura.

L’importanza delle autonomie

E’ di grande interesse il nuovo numero dell’Annale Isap “Storia Amministrazione Costituzione” 2016. L’Isap, Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica, venne fondato nel 1959 per impulso di Feliciano Benvenuti e Gianfranco Miglio: è un ente, con sede a Milano in Piazza Castello 3, specializzato nell’analisi storica e comparata delle istituzioni pubbliche. Tra le varie pubblicazioni, l’Annale “Storia Amministrazione Costituzione” contiene saggi afferenti alla storia delle istituzioni politiche e amministrative.

L’Annale 2016 presenta in apertura due documenti, redatti a Milano, su cui vorrei soffermarmi. Risalgono entrambi agli anni della Resistenza armata nel Nord Italia contro il nazifascismo. Sono per lo più sconosciuti al pubblico: il primo è la lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia Centro Meridionale, risalente alla fine di ottobre del 1944; il secondo è un’altra lettera aperta del Partito d’Azione, rivolta questa volta a tutti i partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale, pubblicata su “Italia libera” il 30 novembre 1944. Segue un saggio del Direttore dell’Isap, il professor Ettore Rotelli, dal titolo Resistenza non costituente (pp.25-83), in cui viene svolta un’analisi del contesto politico e sociale in cui maturò la stesura delle due lettere.

La parte a mio avviso più importante di questo saggio è quella in cui il professor Rotelli esamina le ragioni che portarono all’insuccesso del programma di riforma del Partito d’Azione dell’Alta Italia: un programma, illustrato nel dettaglio nella seconda lettera del 30 novembre, che poggiava sulla convinzione che una repubblica democratica non potesse prescindere da un ordinamento fortemente autonomistico, federale nel metodo, che seppellisse definitivamente le istituzioni centraliste di ascendenza napoleonica che erano state proprie non solo dello Stato italiano fascista, ma anche di quello pre-fascista.

Quale utilità può rivestire oggi la lettura di questi documenti? Almeno due. In primo luogo aiutano a capire quale alternativa vi fosse alla restaurazione dello Stato italiano accentrato decisa dai partiti politici negli anni del dopoguerra. La Costituzione italiana del ’48 e la riforma costituzionale del 2001 fanno dell’Italia una repubblica democratica unitaria informata ai principi del decentramento e dell’autonomia. Però le autonomie territoriali non sono state coerentemente sviluppate; gli apparati burocratici centrali e periferici dello Stato sono ancora in funzione, in molti casi con poca utilità per i cittadini. Se abbiamo a che fare con un’amministrazione pubblica e una burocrazia professionale lenta e inefficiente, troppo spesso non al servizio della collettività, rinchiusa in un formalismo giuridico che mette fatalmente in secondo piano il conseguimento del risultato; se il calo di consensi nei confronti dei partiti politici nazionali ha raggiunto livelli altissimi perché troppo spesso estranei ai bisogni dei cittadini; se l’Italia è uno dei paesi a più basso tasso di senso civico e di cura per la cosa pubblica, questo è dovuto al fatto che alle origini della Repubblica, in quegli anni drammatici eppur così ricchi di proposte di riforma politica, non si volle costruire lo Stato dal basso, partendo dalle istituzioni rivoluzionarie che avevano saputo reggersi responsabilmente in piena autonomia e libertà negli anni della guerra. Si scelse di restaurare l’ordinamento dello Stato prefascista.

Queste lettere mostrano che il Partito d’Azione – unico partito ad essersi sciolto dopo la fine della guerra – credeva nella necessità di fondare una Repubblica fortemente autonomista che mandasse al macero tutte le istituzioni burocratiche e accentrate dello Stato fascista e pre-fascista.

Questi documenti aiutano a capire quanto fosse importante per i maggiori esponenti del Partito d’Azione dell’Alta Italia (da Leo Valiani ad Altiero Spinelli, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa) che nella penisola venisse costituita una repubblica autonomistica che abituasse gli italiani a prendersi cura della cosa pubblica mediante una diretta partecipazione dei cittadini a forti istituzioni territoriali democratiche.

In secondo luogo, se pensiamo alla riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre scorso ove le autonomie regionali erano fortemente limitate a vantaggio dello Stato centrale – uno dei difetti più vistosi in una riforma che per il resto presentava molti elementi positivi – diventa ancor più importante capire le ragioni delle autonomie e del federalismo.

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Adriano Olivetti (1901-1960)

Il Partito d’Azione dell’Alta Italia riteneva che il vecchio Stato centralistico, ove l’amministrazione degli enti locali era soggetta ai controlli di merito e di legittimità dei prefetti (funzionari dell’amministrazione periferica del governo centrale), fosse uno dei maggiori responsabili del malgoverno: questo tipo di Stato aveva abituato gli italiani a non prendersi cura della cosa pubblica, a rinchiudersi nella cura dei loro interessi particolari lasciando a una classe politica, spesso non all’altezza del suo ruolo, la libertà di governare e di spadroneggiare senza alcun freno. Pochi mesi prima che fosse scritta la prima lettera aperta, il 17 luglio, Luigi Einaudi aveva pubblicato su “L’Italia e il Secondo Risorgimento”, supplemento settimanale della “Gazzetta Ticinese”, il celebre articolo Via il Prefetto! Nel Partito d’Azione dell’Alta Italia e in molti intellettuali e imprenditori vicini a quel partito, come ad esempio l’ingegnere Adriano Olivetti, si riteneva prioritaria una riforma costituzionale che si ponesse in netta discontinuità con l’ordinamento unitario dello Stato fascista e prefascista.

Olivetti, nello Schema preliminare di trasformazione dello Stato unitario in Stato federale, inviato ad Altiero Spinelli, risalente all’incirca alla metà di dicembre 1944, proponeva di costituire grandi enti comunali realmente dotati di autonomia finanziaria e amministrativa, le Comunità, la cui popolazione avrebbe dovuto attestarsi sui 90.000 abitanti. Scomparse le Province, occorreva però costituire, oltre alle Comunità, “Stati regionali” governati da Consigli di Stato che – un po’ come avveniva nella Svizzera articolata in Cantoni autonomi – avrebbero gestito quelle funzioni pubbliche che le Comunità non avrebbero potuto assolvere in modo efficace: proseguendo con metodo federale, a loro volta i governatori degli “Stati regionali” Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, avrebbero partecipato al governo centrale di Roma ricoprendo la carica di ministri senza portafoglio.

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Leo Valiani (1909-1999)

Leo Valiani, autore di entrambe le lettere aperte, svolgeva l’ufficio di Segretario del Partito d’Azione dell’Alta Italia. In questi documenti, svolgendo argomentazioni che si ponevano su alcuni punti in sintonia con il pensiero di Einaudi e di Olivetti, riteneva che un autentico ordinamento autonomistico avrebbe salvaguardato la libertà e la democrazia spazzando via i “vecchi rottami” dello Stato fascista e pre-fascista. La proposta era di partire dai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) facendone la pietra di base delle autonomie per la futura vita democratica: formati da esponenti dei cinque partiti antifascisti (comunista, socialista, azionista, liberale, democratico cristiano), i CLN si erano costituiti in ogni Comune, Provincia e Regione agendo in clandestinità e operando, nei territori liberati, come autonome amministrazioni territoriali. Valiani intendeva aprire i CLN alla partecipazione degli organismi di massa della società civile per fondare le basi del nuovo Stato autonomistico.

La situazione tuttavia era completamente diversa nell’Italia centro-meridionale. Qui, ove la liberazione dal dominio nazifascista era avvenuta già nel 1943-44, il governo Bonomi, formato dai partiti antifascisti, si era servito degli apparati burocratico amministrativi del vecchio Stato centralizzato, limitandosi a sostituire i vecchi prefetti fascisti con personale di carriera. Nulla era stato fatto per cambiare la natura unitaria e centralizzata dello Stato.

Scriveva Valiani nella prima lettera aperta risalente alla fine di ottobre 1944 commentando i provvedimenti presi dal governo di Roma nell’Italia del Centro-Sud:  

Noi disapproviamo completamente il modo con cui si è proceduto alla ricostruzione dello Stato italiano. E’ stato il peggiore cui si potesse ricorrere. Si è proceduto con un metodo autoritario alla ricostruzione di un partito autoritario. Il governo, formato dalla coalizione di partiti, genera dall’alto tutti gli organi amministrativi; nomina prefetti e sindaci ed è privo di qualsiasi legame organico con il popolo. Quali che siano le intenzioni dei ministri, un tale procedimento non può [che] riprodurre il tipo malsano di stato centralizzato e centralizzatore, che il fascismo aveva potenziato, e che preesisteva al fascismo, e che non è certo un modello a cui tornare.

[Lettera della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, fine ottobre 1944, in «Annale ISAP», 2016, pag.7].

Queste lettere ci mostrano in altri termini quanto fosse profonda la frattura politico istituzionale tra le due Italie: nel Centro-Sud, liberato dagli anglo-americani, si era conservato lo Stato monarchico con i suoi apparati amministrativi di ascendenza napoleonica risalenti a prima del fascismo e che il fascismo aveva potenziato: in primis le prefetture; al Nord invece, ove, in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, era stata costituita per volere di Hitler la Repubblica di Salò sotto controllo nazi-fascista, i partigiani operavano in brigate e riuscirono in molti casi ad occupare porzioni del territorio amministrandole in modo autonomo mediante i CLN; in alcuni casi, riuscirono a costituire vere e proprie Repubbliche Partigiane come nel Friuli, nella Val d’Ossola, nella Carnia, in Valsesia o nel Monferrato; in altri, come in Toscana, il CTLN (Comitato Toscano di Liberazione Nazionale), aveva esercitato poteri di governo provvisorio dal 2 al 16 agosto 1944, in particolar modo dopo la liberazione di Firenze avvenuta l’11 agosto. Qui il CTLN, ove grande influenza ebbe lo storico e critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti, aveva espresso il netto rifiuto del prefetto come istituzione autoritaria e si era identificato come “Regione e autonomia regionale” in opposizione all’ordinamento centralistico dello Stato unitario.

Come il professor Rotelli lascia intendere nel titolo del suo contributo, Resistenza non costituente, il programma autonomista del Partito d’Azione non fu accolto né dal Comitato centrale del Partito a Roma né dagli altri partiti antifascisti cui era diretta la seconda lettera del 30 novembre 1944. L’elezione dell’Assemblea Costituente nel 1946, la stesura della nuova Carta costituzionale entrata in vigore nel 1948, segnarono senza dubbio uno spartiacque rompendo con il vecchio ordinamento monarchico centralizzato. La struttura burocratica dello Stato italiano rimase però intatta. Non solo alcune istituzioni previste dalla Costituzione del ’48 dovettero attendere molto tempo per essere realizzate: pensiamo ad esempio alle Regioni, istituite solo nei primi anni Settanta con competenze e funzioni assai limitate. Non solo l’ordinamento comunale e provinciale continuò ad essere disciplinato fino al 1990 da una legge di epoca fascista che ereditava quella centralistica del 1865 (testo unico del 1934). La struttura burocratica dello Stato è restata in piedi fino ad oggi, come si vede dal numero spropositato dei ministeri a Roma che si occupano di materie che le Regioni (o le Macroregioni) potrebbero disimpegnare in modo più efficace: dall’agricoltura ai trasporti, dall’istruzione primaria e secondaria all’ambiente. Il conferimento di tali competenze amministrative a grandi enti territoriali era già presente nei progetti liberali elaborati da Cavour, Farini e Minghetti.

Aver rifiutato fin dall’inizio il programma del Partito d’Azione dell’Alta Italia – il solo partito rivoluzionario, come ricordava Altiero Spinelli, che non teorizzi la conquista del potere centrale come mezzo per la realizzazione del suo programma – significò produrre una Repubblica unitaria parlamentare ove al centro, a Roma, nel Parlamento e nel Governo, i partiti nazionali, lontani dall’avere un rapporto diretto con i bisogni dei cittadini, si perdono spesso nelle inutili polemiche della lotta politica: partiti troppo sensibili alla conquista di un potere che la forma unitaria (non federale) dello Stato realizza in dimensioni troppo vaste. Si tratta di un tema, come si può facilmente constatare, di enorme importanza per la società di oggi.

La strana magia delle palme milanesi

In questi giorni l’attenzione dei milanesi sembra essersi focalizzata sulle palme in piazza del Duomo. La cosa è davvero strana perché il tema è letteralmente esploso sui social. L’opinione pubblica è spaccata: i favorevoli – che secondo i sondaggi di Corriere della Sera e Repubblica sarebbero in minoranza – fanno notare che le palme conferiscono alla piazza un’anima esotica e originale.

Lo spazio è stato affittato dal Comune a Starbucks, che ha vinto il bando di sponsorizzazione per i prossimi tre anni. All’azienda americana, che aprirà nel 2018 un megastore nel palazzo delle Poste di piazza Cordusio, si deve la scelta audace del piccolo giardino di palme di fronte alla cattedrale, opera dell’architetto Marco Bay.

Il Sindaco Beppe Sala si mantiene cauto. Lascia trasparire una certa simpatia per l’idea: “certo che Milano osa eh…” scrive sul suo profilo Instagram, ma aspetta di vedere quale sarà la reazione dei milanesi nei prossimi mesi.

Certo, contrariamente a quanto affermano gli oppositori al “progetto palme”, i precedenti storici di questa scelta esistono e sono numerosi. A fine Ottocento la piantumazione di alberi tropicali nelle vie e piazze cittadine era diffusa per quel gusto dei paesi esotici che allora, in piena epoca coloniale, non mancava di affascinare gli europei.

A Bergamo ad esempio le palme erano presenti in via Tasso. Occorre poi ricordare le splendide ville che si affacciavano sui laghi Maggiore e di Como, ove le famiglie della nobiltà e della ricca borghesia industriale lombarda fecero a gara per impreziosire i parchi con specie arboree ricercate e originali.

 Per la piazza del Duomo di Milano possiamo risalire addirittura alla fine dell’Ottocento, quando fecero la loro comparsa alcune palme basse attorno alla statua di Vittorio Emanuele II (vedi la foto in testa a questo articolo). 

Wladimiro, un assiduo e affezionato lettore del mio blog, ha chiesto un mio parere sull’argomento. Non sono un esperto di architettura e neppure di giardini. Devo dire però che a me non dispiacciono le palme. Non è vero che queste piante siano estranee alla storia di Milano, come vanno dicendo i numerosi contestatori.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento le palme iniziarono a fare la loro comparsa nel panorama urbano: non solo arricchirono il verde cittadino, ma conferirono una veste inedita a spazi privati e pubblici. 

Dal momento che la missione del Monitore è di richiamare all’attenzione del pubblico aspetti poco noti della storia milanese, porto due esempi di palme esistenti a Milano tra  la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

Il primo riguarda un giardino privato oggi scomparso. Si tratta del vasto parco della villa Melzi d’Eril che si estendeva tra via Manin e via Moscova fin quasi a confinare con la chiesa di Sant’Angelo dei Minori Osservanti. Una foto scattata alla fine dell’Ottocento mostra uno chalet nel parco in occasione del ricevimento organizzato dalla contessa Josèphine Melzi-Barbò alla presenza del re d’Italia Umberto I.

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Come si può facilmente constatare, davanti allo chalet c’erano diverse palme e piante esotiche. Paolo Mezzanotte e Giacomo Bascapé, nella loro monumentale opera Milano nell’arte e nella storia, ricordavano come il giardino di palazzo Melzi “si offriva generosamente all’ammirazione dell’osservatore…ridente di fiori e di piante ornamentali, esotiche e nostrali”. Nel 1928 questo spazio verde, un vero e proprio parco del tutto rapportabile per estensione ai giardini pubblici di Porta Venezia, venne distrutto. In gran parte dell’area fu costruito il palazzo della Montecatini, opera di Gio Ponti.

IMG_3186Il secondo esempio si lega invece alla Milano dei Navigli. In questa foto vediamo vicino al Naviglio interno, all’altezza dell’incrocio tra via Senato e corso Venezia, uno spazio occupato da una piccola casa ove operavano probabilmente gli addetti alla conca di navigazione. Dietro alla casa, a sinistra, si vede una palma. La fotografia risale ai primi anni del Novecento.    

I Colombitt di Santa Caterina alla Ruota

E’ stata di grande interesse la conferenza organizzata dalla Società Storica Lombarda il 2 febbraio scorso presso l’Archivio di Stato di Milano. Relatrice la storica Flores Reggiani, che ha svolto una relazione sul tema dell’infanzia abbandonata a Milano dall’antico regime alla fine dell’Ottocento. Muovendo da un esame rigoroso della documentazione conservata presso gli archivi del brefotrofio e dell’Ospedale Maggiore di Milano, la Dottoressa Reggiani ha ripercorso le tappe dell’assistenza all’infanzia abbandonata in età moderna, un tema che è stato al centro dei suoi studi negli ultimi anni. Si segnalano in proposito il volume F. Reggiani, “Sotto le ali della colomba”. Famiglie assistenziali e relazioni di genere a Milano dall’Età Moderna alla Restaurazione. Milano, Viella 2014 e, per l’argomento che qui interessa, “Si consegna questo figlio”. L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Cà Granda alla Provincia di Milano (1456-1920), a cura di F. Reggiani, M. Canella, L. Dodi, Milano, Skira 2008.

Oggi il tema della povertà è particolarmente sentito in Italia. Nei secoli dell’Età Moderna (XVI-XVII-XVIII e XIX secolo), la situazione era per molti versi simile se non addirittura peggiore: gran parte delle persone viveva in condizioni di estrema indigenza. L’ambiente familiare era fragile. Nulla di simile al tipo di famiglia europeo del Novecento, basato sulla permanenza dei piccoli nella casa dei genitori e fondato sulla sfera sentimentale degli affetti che lega i membri del nucleo familiare. Nell’antico regime e ancora nell’Ottocento la situazione era diversa. Si pensi all’istituto del baliatico: l’usanza di fare allattare i figli da una balia retribuita era diffusa tanto presso la nobiltà quanto presso le famiglie della borghesia e dei contadini.

D’altra parte, i figli di una famiglia povera lasciavano la casa paterna per lavorare nelle botteghe degli artigiani già all’età di 6 o 7 anni. Il quadro non cambiava nelle cerchie della nobiltà ove molti bambini erano collocati a corte come paggi. La separazione dei figli in età precoce dai genitori era quindi un fenomeno diffuso.

L’alto tasso di mortalità, esistente a quell’epoca, rendeva assai facile restare orfani in tenera età. C’erano poi i neonati abbandonati, lasciati dai genitori nelle pubbliche vie o portati nei luoghi pii. E’ il tema centrale affrontato dalla storica Reggiani, che ha spiegato come questo fenomeno assunse in Età Moderna dimensioni talmente ampie da essere percepito dai contemporanei come un fatto comune.

Chi erano esattamente gli esposti? Nella società d’antico regime, intrisa da una profonda cultura cristiana che si manifestava nelle forme della pietà e della devozione popolare, era nota la vicenda di Mosè: la cesta contenente il bimbo Mosé era stata lasciata dai genitori non già sul Nilo, ma sulle rive del fiume affinché potesse essere trovata. Questo spiega per quale motivo, sulle orme di una tradizione religiosa che aiutava a percepire il fenomeno come non estraneo alla cultura occidentale, nel Medioevo e nell’Età Moderna le famiglie che abbandonavano i bambini non lo facevano con l’intento di ucciderli, bensì con il fine di affidarli a qualcuno che potesse esercitare quel ruolo ch’essi non potevano svolgere per ragioni economiche.

Se esaminiamo il decreto del 17 gennaio del 1812 emanato nel Regno d’Italia napoleonico, troviamo una definizione precisa degli esposti: “nati da padri e madri sconosciuti, sono trovati in un luogo qualunque, ovvero sono portati nei luoghi pii destinati a riceverli”. Seguiva la descrizione del Luogo Pio: “In ogni Luogo Pio, destinato a ricevere figli esposti, vi sarà una ruota o torno in cui saranno deposti”.

I genitori potevano quindi lasciare il bambino in un luogo pubblico, come nella vicenda di Mosé, affinché il neonato fosse trovato facilmente. Spesso tuttavia il padre o la madre preferivano lasciare il bimbo a un’istituzione assistenziale specializzata, il luogo pio ove “la ruota o torno” consentiva la consegna del bimbo mantenendo l’anonimato dei genitori.

Quale ruolo aveva il brefotrofio nella cura di questi bambini? Scriveva Vincenzo Borghini (1515-1580), spedalingo (direttore) dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze:

L’ospedale piglia cura di quelli che so’ gettati via dal proprio padre et madre, et diviene loro padre in tutto e per tutto per averne cura come padre de’ suoi figliuoli.

Le persone che vivevano e lavoravano nel luogo pio accudivano i bimbi con la stessa cura di un genitore.

A Milano il primo istituto dedito all’infanzia abbandonata fu lo xenodochio fondato dal sacerdote Dateo (741-799 d.C.) nel 787 d.C. E’ significativo che tuttora, in piazzale Dateo, abbia sede un brefotrofio attivo dal primo decennio del Novecento. Nel Medioevo si aggiunsero altri hospitali finché nel 1456 la costruzione dell’Ospedale Maggiore rese possibile la formazione di una fitta rete di istituti assistenziali: essi garantirono ai milanesi, almeno fino al 1780, una protezione sociale tra le più avanzate in Europa.

La pia casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota al di là del Naviglio in un acquerello di Giannino Grossi. L’edificio venne demolito agli inizi del Novecento per costruire il nuovo Ospedale Maggiore di via Francesco Sforza.

Al 1781 risale la fondazione della casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota. L’istituto, eretto nei locali di un monastero soppresso, si trovava a pochi passi dall’Ospedale Maggiore, nella parte della città conosciuta come “borgo di Porta Romana” tra il Naviglio interno e i Bastioni. Questi spazi sono oggi occupati dai padiglioni del Policlinico. Il brefotrofio di Santa Caterina, attivo dal 1781 al 1863, era finanziato con donazioni ed elemosine private, il più delle volte – come avveniva per la Cà Granda – provenienti dalle ricche famiglie nobili o borghesi.

Il fenomeno dell’affidamento dei bambini alla casa degli esposti presentava diverse modalità. Un quarto degli ingressi avveniva mediante un incontro “ufficiale” tra la famiglia povera e i responsabili dell’istituto. Nel 50% dei casi i bimbi erano messi invece nella ruota, una modalità che garantiva l’anonimato dei genitori. Assieme al bimbo, il genitore lasciava un piccolo foglietto di carta tagliato a metà e una nota in cui spiegava il motivo dell’abbandono. Metà del foglietto era staccata perché, a distanza di tempo, la famiglia intenzionata a riprenderlo potesse riconoscerlo in base all’altra metà del contrassegno.

I bimbi allevati dal brefotrofio erano chiamati in dialetto milanese Colombitt, un soprannome che traeva origine dall’insegna di Santa Caterina costituita da una colomba. Le analisi della storica Reggiani mostrano che le richieste di assistenza nei luoghi pii e nei brefotrofi milanesi furono decine di migliaia dal 1659 fino agli anni Settanta del secolo scorso. Il picco fu raggiunto nel periodo 1781-1868, quando si toccarono ben 223.012 casi: un fenomeno che conferma ampiamente la definizione dell’Ottocento come “secolo dei trovatelli”. L’abbandono dei figli era dovuto non solo alla già citata povertà dei genitori, ma anche alla difficile condizione in cui si trovavano le madri, costrette a lavorare anch’esse per sopravvivere in un’epoca in cui non esistevano strutture ricettive come gli asili nido. Molte donne lasciavano i figli alla casa di Santa Caterina perché potessero essere allattati da una balia gratuita nei primi due anni. Al bambino era assegnato un numero progressivo che, a fianco dell’anno di consegna, accompagnava la sua pratica nel corso del tempo.

Interessanti i verbali in cui erano trascritti i biglietti lasciati dai genitori vicino al bimbo. Si legga ad esempio questa nota del 1679:

Illustrissimi Signori, la necessità grande di una povera vedova che pochi giorni sono che le è mancato il marito, ritrovandosi una figlia e non sapendo come tenerla, ha pensato ricorrere alla carità di lor signori…spera dopo bali ita [dopo che sia stata tenuta a balia] di tornare a ricuperarla per carità sia tenuta conto perchè è di legittimo matrimonio.

Non molto diversa la motivazione scritta nel 1839 da un altro genitore:

Io racomando questo mio figlio fu batezato in nome Martino è nasuto il giurno di Santo Martino …nato da legittimo matrimonio, che non ha mai avuto mal cattivo e faco questo per essere in gran bisogno…ho 8 figli viventi … raccomando di fare l’impossibile e di dare subito una balia…che prometto di venire a prendere…io sono abitante in Milano

I bambini erano mandati nelle campagne (spesso nell’alto milanese e nel varesotto…di qui la diffusione del cognome Colombo in quelle zone) presso famiglie affidatarie, le cui balie ricevevano un salario dall’ospedale per allattarli fino al secondo anno di età. Venivano quindi svezzati, educati e impiegati nei lavori agricoli.

Ai genitori che fossero tornati a riprendersi i figli dopo molti anni, la casa degli esposti non chiedeva alcun compenso, diversamente da altri istituti che operavano in Italia e in Europa. In molti casi i genitori se li riprendevano quando avevano raggiunto un’età di 6,7,9 o 11 anni per farli lavorare nell’economia domestica oppure per disporre di persone che fossero poi in grado di accudirli nella vecchiaia.

Dopo l’Unità d’Italia, l’amministrazione della pia casa di Santa Caterina alla Ruota passò in gestione alla Provincia di Milano, che la tenne in funzione fino al 1868. La chiusura della “ruota”, avvenuta in quell’anno, segnò un cambiamento profondo nelle abitudini dei milanesi che versavano in povere condizioni.

Riapre il Lirico sulle orme di un illustre passato

Il Comune di Milano ha affidato la gestione del Teatro Lirico alla società olandese Stage enterteinment Srl per un periodo di 12 anni. Il teatro, rimasto chiuso dal 1999, dovrebbe riaprire nei primi mesi del 2018. La società olandese ha messo a punto un nutrito piano di iniziative. La programmazione degli spettacoli sarà affidata a diversi direttori a seconda dei tipi di iniziative messe in campo: Renato Pozzetto si occuperà della parte relativa alla comicità e al cabaret, mentre J-Ax curerà gli eventi di musica leggera per giovani. Gli eventi di musica classica e di musica lirica saranno affidati a Roberto Favaro, vicedirettore di Brera. I concerti Jazz  ad Enrico Intra, mentre Chris Baldock si occuperà degli spettacoli legati alla danza.

Il Teatro Lirico risorgerà quindi a nuova vita dopo quasi vent’anni di chiusura al pubblico. Ci auguriamo che esso saprà restituire al quartiere di via Larga quell’anima culturale che si era venuta definendo nel corso dei secoli in modo del tutto originale.

Difatti, se ci soffermassimo su questo tema inforcando le lenti della storia, rimarremmo colpiti nel constatare che l’isolato compreso tra via Larga e via Rastrelli ebbe un ruolo di assoluto rilievo nella società milanese tra antico regime ed età moderna. Le istituzioni culturali e ricreative che vi operarono nel corso dei secoli diedero al quartiere tre anime: una prima di tipo educativo-formativo, una seconda di tipo melodrammatico operistico di livello quasi paragonabile al Teatro alla Scala, una terza infine legata a un sfera più circoscritta nei contenuti, spesso bando di prova per realizzazioni sceniche destinate in alcuni casi a far discutere, in altri ad incidere in profondità nel panorama culturale italiano.

Qui però occorre chiarirsi subito perché l’edificio che vediamo oggi non corrisponde a quello antico del Teatro della Cannobiana. A ben vedere, neppure via Rastrelli, che costeggia un lato dell’edificio, corrisponde a quella di un tempo: questa strada, che oggi collega via Larga con Piazza Diaz, aveva inizio anticamente da un piccolo incrocio con via Cappellari, a pochi metri dall’antica piazza del Duomo medievale che era assai più piccola dell’attuale. Da quell’incrocio era possibile avere una veduta assai suggestiva della cattedrale. Via Rastrelli costeggiava quindi il Palazzo Ducale – divenuto in epoca napoleonica il Palazzo Reale – e terminava all’incrocio tra le attuali vie Pecorari a sinistra e Paolo da Cannobio a destra, che in antico regime corrispondevano all’incirca alla contrada delle Ore e alla contrada del Pesce. Fu in una casa situata in fondo a questa via, in contrada delle Ore, che furono trasferite nella seconda metà del Cinquecento le Scuole Cannobiane.

Proposta seicentesca di riassetto delle Scuole Cannobiane

L’umanista Paolo da Cannobio (1513-1556) con testamento del 1553 (e codicillo del 1554) aveva assegnato all’Ospedale Maggiore un cospicuo lascito per la costruzione di due scuole di etica e di logica. Aperte nel 1557 in piazza Sant’Ambrogio, furono traslocate nel 1564 in via delle Ore. Quindici anni dopo, l’Ospedale Maggiore decise di installare in quello spazio anche le scuole – fondate da Tommaso Piatti nel 1503 – che si trovavano in via Soncino Merati (via oggi scomparsa, copriva all’incirca il primo tratto dell’attuale corso Matteotti, collegando via San Pietro all’Orto con via San Paolo nel sestiere di Porta Orientale). La gestione in capo alla Cà Granda durò fino al 1671, quando le spese dell’istituto, superando le rendite del lascito Cannobio, impedirono ai membri dell’amministrazione ospedaliera di proseguire nell’attività educativa. La gestione delle Scuole Cannobiane passò al Collegio dei Nobili dottori che finanziò la ricostruzione dell’edificio, ampliato fino ad incorporare una proprietà confinante con via Larga. Alle scuole si accedeva da un piccolo passaggio all’inizio di via delle Ore, passaggio che permetteva agli scolari di accedere alla sala principale, sormontata da una cupola a forma ottagonale-tonda. Le scuole continuarono a svolgere le loro funzioni fino alla fine degli anni Sessanta del Settecento quando il governo asburgico, messo a punto il piano di studi del 1769-70, decise di incorporarle nelle Scuole Palatine di Piazza dei Mercanti. Poco dopo, in seguito alla soppressione dei Gesuiti nel 1773, le scuole secolari milanesi furono concentrate nel Palazzo di Brera che, per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, divenne il nuovo “campus” milanese gestito dallo Stato, con finanziamenti adeguati all’alta formazione culturale e scientifica. L’edificio delle Scuole Cannobiane, adibito a magazzino, era destinato a scomparire nel periodo napoleonico, quando gli isolati compresi tra quella parte di via delle Ore (oggi via Pecorari) e via Larga , furono demoliti per costruire l’ala meridionale del Palazzo Reale secondo i disegni dell’architetto Tazzini.

Veniamo alla seconda vita del quartiere. Agli ultimi anni del riformismo teresiano risale la fondazione del Teatro della Cannobiana e della via omonima che fu costruita in prosecuzione di via Rastrelli verso via Larga. Il teatro, costruito negli stessi anni del Teatro alla Scala, era più piccolo rispetto a quest’ultimo. L’edificio presentava tuttavia dimensioni notevoli nel panorama dei teatri cittadini. Nelle intenzioni delle autorità asburgiche, la Cannobiana avrebbe dovuto rivestire un ruolo importante nella vita culturale cittadina. Non a caso esso fu conosciuto dai milanesi come “picciol Teatro”, mentre il “Teatro grande” era ovviamente quello della Scala. I due teatri furono pensati entrambi quali poli d’eccellenza della vita culturale e artistica. Giuseppe Piermarini fu scelto per dirigere la costruzione di entrambi gli edifici. Inoltre, non diversamente da quanto era avvenuto nel giorno di apertura del Teatro alla Scala nell’agosto 1778, anche per l’inaugurazione del Teatro della Cannobiana, avvenuta nel luglio 1779, fu scelta un’opera di Antonio Salieri, La Fiera di Venezia su libretto di Boccherini. Quanto a dimensioni, se la Scala poteva contenere 3600 spettatori, la Cannobiana ne ospitava 2300. La platea era composta da 14 file di sedie (in tutto 450).

Il Teatro alla Cannobiana (o Canobbiana) da “I Teatri di Milano”, particolare da L. Cherbuin dis. ed inc., prima metà XIX secolo

Nei primi anni di attività, la Cannobiana rivestì quindi un’importanza quasi pari a quella del Teatro alla Scala nell’allestimento degli spettacoli. D’altra parte, quanto al pubblico, essa fu frequentata non solo dalla ricca borghesia ma anche dalle più importanti famiglie del patriziato milanese. Avveniva spesso che i nobili disponessero di due palchi: uno al Grande Teatro, l’altro al Picciol Teatro. Del tutto indicativo, in proposito, il caso dei Visconti Ajmi che ho preso in esame nel mio libro Via Filodrammatici prima di Mediobanca (Milano, Scalpendi Editore 2015): questo casato risultava proprietario a fine ‘700 del palchetto N.17 in terza fila alla sinistra nel Teatro alla Scala e del palchetto n.1 in terza fila alla destra nel Teatro della Cannobiana. Nel periodo rivoluzionario, il “Picciol Teatro” divenne un punto di ritrovo per i patrioti lombardi. Vi si tennero tragedie di Alfieri e di Salfi che inneggiavano alla virtù repubblicana. Nel 1798 i patrioti cisalpini lo scelsero per rogare solennemente (presente il notaio Zamperini) l’atto di sovranità del popolo, verosimilmente in opposizione alle ingerenze francesi che avvenivano in quei mesi negli affari di politica interna della Repubblica Cisalpina. Sotto il Regno d’Italia napoleonico e il Regno Lombardo Veneto austriaco, la Cannobiana ritornò al suo antico splendore. Varrà la pena ricordare a tal proposito che Gaetano Donizetti scrisse le scene dell’Elisir d’amore affinché fossero tenute in questo teatro, il che avvenne nella “prima” del 12 maggio 1832. Il calendario era diviso in due stagioni: nel carnevale venivano allestite le commedie, mentre in estate le opere in musica e i balli.

Come avveniva alla Scala, anche qui gli spettacoli non erano certo l’unica attività del teatro: il gioco d’azzardo nei ridotti, la preparazione di piatti e pietanze che potessero soddisfare il palato degli avventori, finivano con il distrarre il pubblico dalla rappresentazione dell’opera. Celebri le lamentele di Berlioz in occasione di una serata trascorsa alla Cannobiana, ove i pasti rumorosi a base di costolette e minestroni lo avevano distratto per il rumore delle stoviglie.

Restaurato nel 1844, il “picciol Teatro” declinò in modo irreversibile nella seconda metà dell’Ottocento, quando passò in gestione dallo Stato al Comune di Milano. La progressiva carenza di fondi segnò la fine di quella stagione memorabile che era iniziata assieme al Teatro alla Scala. L’introduzione dell’illuminazione elettrica non aiutò a risollevare una situazione che restava precaria; parve al contrario portare sfortuna: il prefetto Basile, richiamandosi all’incendio del Ring-Theater di Vienna avvenuto l’8 dicembre 1881 che aveva causato numerosi morti, ebbe buon gioco nel decretare la chiusura della Cannobiana alcuni anni dopo. Nel 1889, a pochi mesi dalla cessazione dell’attività, il poeta Ferdinando Fontana scrisse questi versi malinconici in dialetto milanese:

In via Larga sul canton

Che va dent in del volton

Gh’è ona veggia carampana

Che se ciamma Cannobiana,

Ma che l’è de quj veggett

Fa d’on stamp tanto perfett

Che conserva l’allegria

Anca a vess in agonia…

 

Interno del Teatro Lirico dopo i lavori di ristrutturazione compiuti da Antonio Cassi Ramelli nel 1938.

La seconda vita dell’isolato tra via Larga e via Rastrelli si era chiusa definitivamente ma un’altra se ne aprì in breve tempo. L’editore Sonzogno, le cui pubblicazioni erano in concorrenza con quelle della casa editrice Ricordi, acquistò dal Comune l’edificio ormai in rovina: la sua idea era di formare un nuovo polo teatrale che potesse favorire la sua attività di editore in campo musicale come i Ricordi avevano saputo fare rispondendo abilmente alle richieste di compositori, maestri e impresari del Teatro alla Scala. L’immobile fu ristrutturato in via radicale su disegno dell’architetto Sfondrini. Il 24 settembre 1894 l’edificio fu aperto al pubblico come nuovo Teatro Lirico Internazionale.

Benito Mussolini al Teatro Lirico il 16 dicembre 1944

Diversamente dal Teatro alla Scala, che rimase il tempio dell’opera, il Lirico non raggiunse i livelli di eccellenza cui mirava Sonzogno. Esso si segnalò tuttavia per l’originalità degli spettacoli e assurse ben presto a una certa fama nel panorama della vita artistica milanese. Tra le prime più importanti, si ricordano la Fedora di Umberto Giordano tenuta nel 1898 che lanciò la carriera del celebre tenore Enrico Caruso, nonché La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio (1904). Un’altra serata memorabile fu quella che si svolse al Lirico il 15 febbraio 1910, quando i Futuristi presentarono al pubblico il loro celebre Manifesto destinato a suscitare scalpore nella società del tempo. L’interno fu devastato da due incendi: un primo nel 1938, un secondo nel 1943. Nonostante tali incidenti, il teatro, ricostruito e ampliato dall’architetto Cassi Ramelli (1905-1980), seppe svolgere una certa attività anche sotto il regime fascista e perfino in tempo di guerra: il 16 dicembre 1944 Mussolini scelse il Lirico per tenere il suo ultimo discorso ai milanesi.

Veniamo infine agli anni del Dopoguerra e del boom economico, durante i quali il Lirico svolse un ruolo importante quale centro culturale milanese, anche se non tornò certamente ai fasti dei primi anni del secolo. Wanda Osiris vi tenne i suoi spettacoli eccentrici e piumati. Verso la metà degli anni Sessanta il Lirico presentava al pubblico un calendario di spettacoli del tutto avvicinabili a quelli del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Negli anni di piombo, in una Milano immersa nel dramma del terrorismo e della contestazione, suscitò grande impressione la presentazione al Lirico in prima mondiale, il 4 aprile 1975, dello spettacolo Al gran sole carico d’amore, opera di Luigi Nono con la regia di Jurij Ljubimov: vi furono rappresentate le grandi rivoluzioni operaie – dalla Comune parigina alle rivolte nell’Italia del 1943 – alle quali si aggiungeva un richiamo alla guerra in Vietnam.

Il biscione squamato e il drago di San Dionigi

I successori di Ottone Visconti che esercitarono la signoria di Milano – e dei territori e città soggette progressivamente  al loro dominio – continuarono a servirsi della vipera quale insegna di famiglia almeno fino ad Azzone Visconti (1302-1339). Sembra invece che sia da ricondurre ai successori di Azzone la modifica sostanziale dello stemma, ormai utilizzato nell’esercizio del potere pubblico: la vipera fu allungata, attorcigliata in più spire di cui la prima formava una “O” (atta a richiamare il primo Signore di Milano, il già citato arcivescovo Ottone), mentre la testa assunse le sembianze di un drago le cui fauci erano spalancate nell’atto di divorare un fanciullo colorato di rosso. Nella seconda metà del Trecento, questa immagine venne spesso associata a quella di un drago raffigurato anch’esso nell’atto di divorare un bambino. Questo traspare bene se esaminiamo alcune monete coniate dai Signori e Duchi di Milano nel Medioevo: in alcuni pezzi risalenti a Luchino e Giovanni Visconti (1339-1349), a Bernabò e Galeazzo II (1354-1378), a Bernabò fino al 1385, al duca Gian Galeazzo (1385-1402) fino all’ultimo esponente di casa Visconti, il duca Filippo Maria (1412-1447), la lunga biscia squamata con la testa di drago che ingoia un bambino è raffigurata all’interno di un più ampio disegno in cui è presente un drago crestato che ingoia a sua volta un fanciullo.

Pegione, moneta in argento coniata sotto la Signoria di Bernabò Visconti. Diritto: Elmo con cimiero ornato da drago crestato con fanciullo nelle fauci. Rovescio: Serpente visconteo con fanciullo nelle fauci.

Credo che questa variazione dello stemma, così notevole in talune insegne e monete, rivelasse l’ambiziosa politica dei Visconti, i quali puntavano ad essere riconosciuti quali difensori della comunità, autentici “signori civilizzatori” in grado di proteggere i sudditi dalle calamità naturali.

Nel Medioevo l’immagine del drago rinviava a culti pagani assai diffusi in Europa; essa richiamava nell’immaginario popolare le forze misteriose della natura da cui era impossibile difendersi. Importante è ad esempio il racconto agiografico scritto da Venanzio Fortunato nel VI secolo d.C. riguardante San Marcello di Parigi e il drago. Lo storico Jacques Le Goff, in un bel saggio intitolato Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: San Marcello di Parigi e il drago (si veda il volume J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, Einaudi 2000, pp.209-255) ha mostrato come il drago pagano simboleggiasse in molti casi le calamità naturali. San Marcello – secondo un’agiografia risalente al VI secolo dopo Cristo – sarebbe riuscito a domare il drago consentendo a un quartiere della città (il faubourg Saint Marcel) di svilupparsi e di prosperare. La bonifica delle paludi avvenute durante il vescovato di San Marcello, viene descritta ricorrendo all’atto del drago ammansito, domato, cacciato.

In altri racconti dell’alto Medioevo il drago veniva addirittura ucciso da un eroe (spesso – anche qui – identificato con la figura di un “santo sauroctono”: San Giorgio, San Michele). Anche nel caso delle uccisioni dei draghi, spesso nella cultura folklorica europea l’episodio rinviava alle opere civili dell’uomo costruttore di città, dell’uomo bonificatore di paludi, dell’uomo civilizzatore che cerca di far fronte alle forze invisibili della natura: epidemie, inondazioni di fiumi o di laghi, pestilenze, calamità devastanti che causavano la morte di uomini, donne e bambini.

Credo che il drago visconteo possa rinviare in parte a questo sostrato pagano. Basti ricordare la diffusione del culto di San Giorgio, altro santo sauroctono uccisore di un drago, il cui mito è molto diffuso nel Nord Italia. I Visconti, conquistato il potere politico nel corso della prima metà del XIV secolo, potrebbero essersi presentati anch’essi quali eroi civilizzatori che difendono gli abitanti di una comunità contro le forze ostili della natura impersonate dal drago. Una spia che autorizza almeno a non escludere tale ipotesi è una leggenda popolare milanese, risalente probabilmente al XIV secolo, divulgata nel periodo visconteo, che ebbe una certa fortuna per tutto l’antico regime, fino ai primi del ‘700.

Fiorino coniato sotto la signoria di Bernabò e Galeazzo II Visconti. Diritto: Scudetto con biscione visconteo sormontato da elmo e cimiero ornato da drago piumato con fanciullo nelle fauci. Rovescio: Scudetto con biscione visconteo sormontato da elmo e cimiero ornato da drago crestato con fanciullo nelle fauci.

L’eroe è ovviamente un antenato dei Visconti, tale Uberto. Il mostro è descritto anche qui nelle sembianze di un drago che mieteva vittime.

La versione più antica di questo racconto sembrerebbe trovarsi nella Cronaca estravagante del frate domenicano Galvano Fiamma, vissuto nella prima metà del XIV secolo. Questi fu in stretto rapporto con i Visconti per i quali scrisse alcune opere sulla storia di Milano tese a celebrare il loro dominio. Nella Cronaca estravagante troviamo il racconto del drago. Ringrazio il professor Ambrogio Céngarle Parisi per avermelo indicato.

Ubertus uicecomes draconem, totam civitatem suo anelitu infitientem, homines et animalia deuorantem, per barbam areptum, securi mactavit.

[Un visconte Uberto afferrò per la barba un drago che appestava l’intera città col suo fiato e divorava uomini e animali, e l’ammazzò con la scure].

Traduzione del professor Céngarle Parisi da La Cronaca estravagante di Galvano Fiamma, a cura di Ambrogio Céngarle Parisi e Massimiliano David, Milano 2013, cap.103, paragrafo 4, pag.363].

La leggenda è ripresa e arricchita nel libro La nobiltà di Milano del religioso gesuato Paolo Morigia, pubblicato nel 1615. Anche in questo testo, il racconto è ambientato nella campagna al di fuori della Milano medievale, nei campi tra Porta Orientale e Porta Nuova non lontano dai Bastioni, ove oggi si trovano i Giardini Pubblici. La vicenda mitologica si svolge vicino alla Chiesa di San Dionigi – oggi non più esistente: qui San Barnaba, secondo la tradizione milanese, si sarebbe fermato a pregare prima di entrare a Milano per svolgere opera di evangelizzazione. Il drago svolge quindi la sua opera malefica in una zona cui i milanesi erano particolarmente legati per il culto di San Barnaba. Scriveva il Morigia:

Volendo ora favellare de gli huomini famosi in guerra di casa Visconte (per essere eglino in grandissimo numero) dirò solamente de i più famosi nell’arte della milizia: et il primo sarà Uberto dell’antica casa d’Angiera, dove è discesa casa Visconte. L’anno adunque 400 incirca, essendosi scoperto un gran Dracone che usciva a certe hore d’una cava vicina a S.Dionigio, e co’l pestifero e mortifero suo fiato infettò tutta quella parte della Città, di modo che morsero (sic!) alquante migliaia e tuttavia la Città si andava infettando; e non trovandosi rimedio a questo. Uberto dunque andò tutto armato contra al grande e pestifero Dracone con gran fortezza d’animo, e destrezza d’ingegno, e mosso dal suo naturale valore s’espose à pericolo della vita per la liberatione della sua patria. Onde l’uccise e con eterna sua gloria liberò la Città da cotal morbo, oltre che fece altre prodezze di gran valore

[P.Morigia, La Nobiltà di Milano, Libro IV, Cap. III, Milano, Giovanni Battista Bidelli 1615, ristampa anastatica Forni editore 1979, pp.311-312.].

Un secolo più tardi, il canonico Carlo Torre si servì della leggenda di Uberto Visconti e del drago per descrivere i borghi di Porta Nuova e Porta Orientale ove si trovava la chiesa di San Dionigi. Nell’opera del Torre, Il Ritratto di Milano, pubblicata nel 1714, troviamo scritto:

Questi è poi il sito in cui fu occiso da Uberto Visconte il Drago che co’ suoi fiati apportava a’ cittadini malefici danni, mentre distoltosi da profonda tana givasene per questi vicini contorni à procacciarsi il vitto, havendo voi a sapere che in quelle antiche età rendevasi tal sito disabitato, e selvaggio, innalzandosi assai discoste le Cittadine mura, quindi familiari i covaccioli (i covi) le fiere. Generoso era cotesto Uberto Cavaliere di nascita, Signore d’Angera…quindi postosi Uberto in pretensione di farsi mirare vittorioso, entrò in arringo e vinse il mostro dal cui felice successo ne trasse di valoroso memoria eterna ne’ posteri. Dichiarasi questo Uberto, d’essere della ramosa Pianta de’ Visconti il vero ceppo…

Ducato coniato sotto il ducato di Galeazzo Maria Sforza. Nel rovescio, scudetto con il serpente sormontato da elmo coronato e da cimiero ornato da drago crestato.

La fortuna di questa leggenda sembra trovare un riscontro nella coniazione delle monete del Ducato di Milano. Gli Sforza, succeduti ai Visconti, continuarono a servirsi dello stemma del drago che ingoia un bambino rappresentato assieme al biscione squamato che ingoia anch’esso un fanciullo.

Com’è noto, quest’ultimo stemma ebbe maggiore fortuna: dipinto in verde o in azzurro, inquartato con l’aquila dell’impero germanico, il biscione squamato con la testa dentata continuò ad essere utilizzato come insegna del ducato di Milano per tutto l’antico regime.

Alle origini della vipera milanese

Se chiedessimo a un milanese quale sia l’insegna di Milano, in larga parte dei casi avremmo come risposta la croce rossa su fondo argenteo. Risposta ovvia, non foss’altro perché si tratta dell’attuale stemma del Comune di Milano. La croce rossa è insegna antica che risale al Medioevo, quando i Milanesi la issarono sul Carroccio nel corso delle battaglie dei Comuni italici contro l’Impero in opposizione alla croce bianca su fondo rosso propria dell’imperatore germanico e dei Comuni che lo sostenevano.

Eppure, a ben vedere, quella risposta sarebbe scorretta perché la croce rossa non fu certo l’unico stemma dei Milanesi. C’è anche la famosa “vipera, che il Melanese accampa” come scriveva Dante nella Commedia nei primissimi anni del Trecento. Più di due secoli dopo Torquato Tasso, nella Gerusalemme liberata, sarebbe tornato sull’argomento in un passo famoso riferendosi a “Il forte Otton, che conquistò lo scudo/In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo”: Ottone Visconti, figlio del visconte di Milano Ariprando, nel corso della crociata in Terra Santa avrebbe sconfitto in duello il saraceno Voluce riportando in patria lo stemma del guerriero sconfitto: una vipera che divora un uomo. Un racconto di cui si servì abilmente la famiglia Visconti già nel Duecento per spiegare l’utilizzo dell’insegna della vipera.

Oggi è quindi molto facile pensare che la vipera sia lo stemma gentilizio della famiglia Visconti e nulla di più. Tale casato nobiliare, quando s’impadronì stabilmente del Comune milanese nel primo Trecento, avrebbe imposto la vipera quale insegna della città. In realtà, questa spiegazione non convince del tutto.

La vipera era uno stemma milanese già molto tempo prima della Prima Crociata cui partecipò il leggendario Ottone nel 1099. Basta andare nella chiesa di Sant’Ambrogio, dove su una colonna di marmo è posto un serpente di bronzo risalente ai primissimi anni dell’XI secolo. Lo portò Arnolfo, arcivescovo di Milano, nel 1002, quando fece ritorno in città da un’ambasceria a Costantinopoli (odierna Istanbul) che era tesa a procurare all’imperatore germanico Ottone III una sposa di nobili origini “romane”. Scriveva Pietro Verri nella Storia di Milano pubblicata nel 1783:

A quest’ambasciata, sostenuta dal nostro Arcivescovo Arnolfo, siamo debitori del famoso serpente di bronzo, che tuttavia resta collocato sopra di una colonna in Sant’Ambrogio. Non è cosa nuova nei Monarchi di premiare e ricompensare con donativi, il valore de’ quali non pregiudichi l’erario. Il serpente di bronzo fu donato dal tesoro di Costantinopoli, facendo credere al buon Arcivescovo che fosse il medesimo che Mosé innalzò nel deserto; e con questa bella antichità fu rimeritato della enorme spesa che fece.

[P. Verri, Storia di Milano, capo IV, Edizioni Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.87]

Lo storico di Milano Ettore Verga e, dopo di lui, il medievista Gian Piero Bognetti concordarono nel ritenere fondata la tesi che il serpente – totem molto diffuso presso i longobardi arimanni –  fosse stato adottato quale insegna milanese tra l’alto Medioevo e il basso Medioevo. E’ probabile che i guerrieri ambrosiani inviati nella crociata in Terra Santa, memori della serpe di bronzo conservata in Sant’Ambrogio, avessero decisero di adottarlo quale stemma rifacendosi al serpente miracoloso di Mosé. La vipera divenne quindi verosimilmente uno stemma milanese ben prima che fosse adottata come insegna dai primi Visconti.

La validità di questa ipotesi si collega alla cerimonia dell’investitura civile seguita alla fine del Duecento dal Comune di Milano nei confronti dei Visconti. Lo storico Francesco Novati, quando scoprì nella Biblioteca Nazionale di Madrid la celebre cronaca De Magnalibus urbis Mediolani (Le Meraviglie di Milano) scritta dal frate Bonvesin de la Riva, ricavò da quel testo elementi più che sufficienti per ritenere infondata l’origine esclusivamente gentilizia dello stemma della biscia. Scriveva Bonvesin nel 1288:

Anche ad un discendente della nobilissima stirpe dei Visconti, che appaia il più degno, il comune offre un vessillo, su cui è dipinta in azzurro una biscia che trangugia un Saraceno rosso: questo vessillo si porta davanti a ogni altro e il nostro esercito non si accampa mai in qualche luogo, se prima non ha visto la biscia collocata su qualche albero.

[Bonvesin de la Riva, De Magnalibus urbis Mediolani, Milano, Bompiani 1992, edizione a cura di Maria Corti, traduzione di Giuseppe Pontiggia, pag.155].

Commentando questo passo, così scriveva il Novati nel 1898: “Intorno all’origine di siffatta usanza, la quale apre la via a sospettare che l’insegna della vipera fosse in antico propria del comune di Milano, e non già, come sostiene la volgarissima tradizione, della famiglia Visconti che doveva renderla famosa, non è qui il caso d’istruire ricerche”.

Quando Bonvesin de la Riva scrisse la sua opera famosa, da undici anni il potere civile e il potere ecclesiastico erano uniti nella persona dell’arcivescovo Ottone Visconti (1207-1295). Difatti, com’è noto, nel 1277 il nobile prelato era riuscito ad entrare trionfalmente in città in seguito al fortunato colpo di Desio ove i Torriani – gli storici nemici della sua famiglia che reggevano il governo di Milano – erano stati fatalmente sorpresi in un’imboscata notturna.

Ottone, com’è noto, fu il primo dei tredici Visconti ad assumere il governo di Milano. Il suo stemma non corrispondeva tuttavia alle insegne dei Visconti diffuse tra Tre e Quattrocento, quelle che furono proprie dello Stato di Milano almeno fino alla fine dell’ancien régime: mi riferisco alla lunga serpe squamata con la testa di drago, raffigurata in verde o in azzurro, che ingolla un bimbo colorato di rosso. Uno stemma, questo, su cui mi soffermerò in un altro articolo.

Lo stemma di Ottone e dei suoi antenati era diverso. Lo si vede bene in una scultura in marmo che lo storico milanese Giorgio Giulini, verso la metà del Settecento, vide nel palazzo arcivescovile di Legnano fatto costruire dal nobile milanese. Non so se questa piccola pietra di marmo esista ancora. La figura è riportata nell’opera monumentale del Giulini, Le Memorie di Milano nei secoli bassi. Riporto una fotografia parziale riportata nel quarto volume della ristampa anastatica dell’edizione Colombo del 1854 pubblicata nel 1974 dalla casa editrice Cisalpino Goliardica (pag.763). Vi compare una vipera, assai più corta e grossa di quella famosa raffigurata dai Visconti e dagli Sforza, ritratta nell’atto di mangiare un uomo che regge nella mano destra una freccia e nella sinistra un tondo raffigurante il frammento del volto di una persona.

Lo stemma di Ottone Visconti nel palazzo arcivescovile di Legnano. Imaggine tratta dalle Memorie di Milano nei secoli bassi del conte Giorgio Giulini

In realtà, i Visconti avevano scelto la vipera quale loro stemma ben prima di Ottone Visconti. E’ sempre lo storico Giorgio Giulini a ricordarci quanto riportato dal cronista Tristano Calco in una delle sue opere. Questi, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, raccontò che quando venne dissotterrato il cadavere di Ardengo Visconti, abate del monastero di Sant’Ambrogio nella prima metà del XIII secolo, fu trovato accanto allo scheletro un pastorale ornato con vipere di avorio. Una prova ulteriore che già nel Duecento i Visconti si erano serviti della vipera milanese per fregiare il loro stemma.

Una giornata di fine ‘800 in Galleria

In un  articolo pubblicato nel volume Vita milanese edito dalla casa editrice Vallardi in occasione dell’Esposizione Nazionale del 1881, lo scrittore Ferdinando Fontana (1850-1919) prendeva in esame la vita dei milanesi in quegli anni di fine Ottocento, quando la Città contava ormai – dopo la fusione con i Corpi Santi avvenuta nel 1873 – più di 320.000 abitanti. La popolazione era ancora concentrata in larghissima parte entro la cerchia dei Bastioni: 214.000 i milanesi del centro contro i 108.000 degli ex corposantini, segno che la costruzione dei nuovi quartieri residenziali nel vasto territorio oltre le mura non aveva raggiunto le dimensioni che avrebbe assunto a fine secolo e nel primo Novecento.

Nel 1878 il Comune istituì i nuovi corsi oltre le Mura: corso Loreto (poi Buenos Aires), corso XXII Marzo, corso Lodi, corso Sempione, corso Vercelli, corso Como, corso San Gottardo. Milano andava assumendo sempre più quell’anima dinamica, imprenditoriale, votata al progresso che conosciamo oggi. Nel 1877 i fratelli Bocconi aprirono Aux villes d’Italie (insegna ribattezzata nel 1880 “Alle città d’Italia): una boutique di tessuti e di abiti, situata in un grande edificio tra via Cattaneo e via Grossi, che è l’antenata della Rinascente. In quello stesso anno Enrico Forlanini realizzava il primo esperimento di elicottero a vapore effettuando il test vicino al Teatro alla Scala. Insomma, la Milano che celebrava l’Esposizione Nazionale del 1881 si presentava in rapida evoluzione.

Ferdinando Fontana era noto in quegli anni per la stesura di testi teatrali e per la collaborazione con alcune riviste in cui dimostrava la sua sensibilità per i problemi delle classi popolari.  Nella sua attività di librettista aveva lavorato nei primi anni Ottanta con il celebre compositore Giacomo Puccini.

Ferdinando Fontana (a sinistra) con Giacomo Puccini (da Wikipedia)

Nel campo della letteratura Fontana si poneva a metà strada tra gli Scapigliati e i Veristi. Scrisse alcune poesie in dialetto milanese, un genere che amò moltissimo: curò un’antologia storica di scritti poetici in dialetto locale (Antologia Meneghina, prima ed. 1891) e una raccolta di poesie del Porta tradotte in italiano. Il suo tratto distintivo fu la costante difesa delle classi popolari, sia di quelle lavoratrici sia delle fasce disagiate. A questo proposito varrà la pena ricordare una poesia scritta per un gruppo di muratori disoccupati in occasione del Natale del 1890: Bosinada don pover magutele. Anticlericale, si candidò al Consiglio Comunale di Milano nelle liste dei radicali in occasione delle elezioni del 1892 battendosi per la laicità delle istituzioni, per l’istruzione popolare e per l’abolizione del dazio consumo, una tassa comunale che gravava sui commercianti corposantini.

Questo accenno al profilo biografico di Fontana è importante per capire il contenuto dell’articolo scritto nel 1881. Vi troviamo la descrizione di alcuni luoghi di Milano i cui ambienti erano descritti prendendo in esame le diverse classi sociali che li popolavano nelle varie ore del giorno.

In questa sede desidero soffermarmi sulla Galleria Vittorio Emanuele. Il testo di Fontana è molto interessante perché vi traspare un racconto della vita quotidiana che già presenta venature “veriste”. All’alba e al primo mattino passeggiavano frettolosamente in Galleria artigiani, camerieri, cameriere, muratori, garzoni di falegnami o di fabbri; seguivano in tarda mattinata – verso le otto, le nove e le dieci di mattina – i traveti (gli impiegati) e le madamine, le ragazze di buona famiglia che amavano mettersi in mostra. Alle undici era la volta della classe più abbiente e facoltosa: tutta gente – scriveva Fontana – che fa colazione à la fourchette al Gnocchi, al Biffi, all’Accademia, al Martini. Nel pomeriggio la Galleria si animava grandemente, frequentata dalla nobiltà e dall’alta borghesia milanese che la rendeva un salotto in cui sfavillavano i vestiti e i gioielli indossati dalle dame di alto rango: una parata di abiti variopinti che accresceva il fasto della Galleria:

Dalle due alle cinque,e alle sei pomeridiane, la [la Galleria Vittorio Emanuele] si direbbe un gran salotto. Gli eleganti vi sfoggiano i loro abiti, usciti nuovi fiammanti dalle mani del Prandoni…o del Bencetti; le belle donnine (abbigliate con quel fine buon gusto con cui sanno vestire le signore milanesi) passano a centinaia attraverso siepi di ammiratori: c’è un momento, verso il crepuscolo, in cui tutto questo mondo elegante è al gran completo; poi si dissolve; tutti sono andati a pranzo: la Galleria resta quasi deserta per mezz’ora.

In quelle ore, quando il pomeriggio cede il passo alle prime ore della sera, ai nobili e ai ricchi borghesi succedeva una folla di turisti provenienti dalle città e dai paesi d’Italia e d’Europa, accorsi ad assistere allo spettacolo del rattin: un dispositivo meccanico quasi a forma di topo, assai avanzato per l’epoca, che provvedeva all’illuminazione della Galleria accendendo i becchi a gas che si trovavano sotto la cupola ottagonale.

Nel vasto ottagono restano immobili per parecchi minuti, talvolta per dei lunghi quarti d’ora, duecento o trecento persone, col naso al vento e gli occhi rivolti in su, in attesa del famoso rattin. E quando il rattin compare e procede all’adempimento della sua solita mansione vespertina, tutte le bocche si aprono in forma d’ovo, lasciando uscire un “Ah!” di beata meraviglia, così prolungato e sonoro, che la lunga Galleria ne echeggia.

Il maggiore affollamento di persone, appartenenti alle più svariate classi sociali avveniva nelle ore serali e notturne. Oltre ai turisti stranieri e italiani, si incontravano venditori di zolfanelli, di giornali, di libri dediti alla ricerca di potenziali clienti. Tutto questo, scriveva Fontana, fino alle dieci o alle undici di sera. Poi, progressivamente, il rumore e il chiasso si dileguavano. In Galleria era possibile incontrare piccoli gruppi di persone appena uscite dai vicini teatri: il Teatro alla Scala, ma anche il Teatro Manzoni che era stato aperto pochi anni prima, il 3 dicembre 1872, in piazza San Fedele nell’area in cui si trovava il Palazzo Imbonati.

Allora, cioè dalla mezzanotte all’alba, la Galleria assume un aspetto nuovo e interessantissimo; la vita non cessa, ma vi resta, si direbbe quasi, a fila, in incubazione; specialmente nelle notti di luna piena lo spettacolo è attraente: i raggi lunari, battendo sui vetri della vasta tettoia e della cupola, vi destano dei bagliori opalini che fanno sognare; senonché, a togliervi dalle fantasie sentimentali suggerite da quei bagliori, vi giunge il canto…di un ubbriaco fradicio, il quale barcolla sul mosaico sdrucciolevole, o la discussione animata di un gruppo di ritardatari … o lo stropiccio cadenzato dei passi del custode o di due guardie di questura, sorveglianti il sonno pubblico.

La Milano di Sala: città modello per il Paese

La presentazione, avvenuta ieri, dei punti programmatici che la giunta Sala affronterà nel corso del suo mandato quinquennale mi ha fatto pensare al motto “conoscere per fare” concepito da Romagnosi e fatto proprio da Carlo Cattaneo. Scriveva Gian Domenico Romagnosi in un passo Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento: “qui dunque, in ultima analisi, si tratta di fare, e se si vuol conoscere è per fare”. Una frase che da sola aiuta a capire le ragioni di quella progettualità concreta, fattiva, capace di confrontarsi con i problemi della società, che ha consentito ai milanesi di pensarsi in divenire, di reinventarsi nei grandi tornanti della storia senza perdere il treno del progresso.

Milano può contare oggi su quattro risorse. La prima riguarda una cultura del buongoverno che ha prodotto – soprattutto negli ultimi anni – una buona amministrazione. Certo, errori sono stati fatti in passato (tanto nelle giunte di centrodestra che di centrosinistra) ma se la situazione di oggi è quella che vediamo, ciò è dovuto a una cura per la cosa pubblica che ha radici storiche di lungo periodo. La seconda risorsa riguarda la ricerca scientifica di altissimo livello che ha il suo fulcro nelle università milanesi. La terza risorsa è il capitale umano: gli istituti educativi della metropoli forniscono ai giovani un patrimonio di competenze da mettere a frutto. Potremmo parlare di “una generazione incendiaria”, che ha tanta voglia di fare ma in Italia non trova le opportunità per crescere. La quarta risorsa è un fitto tessuto di imprese, attive soprattutto nel digitale, che trova a Milano e solo a Milano un ambiente fertile, aperto all’innovazione tecnologica. La giunta Sala e il governo nazionale avranno nei prossimi anni il compito immane di mettere a frutto queste risorse perché la città sia un modello di sviluppo in grado di contribuire alla crescita dell’Italia.

Il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala

Il Sindaco ha una sua idea della città per i prossimi dieci – quindici anni. Non basta però avere visioni. Occorre saper costruire. Sala è uomo concreto, fattivo, pragmatico. Ama grandemente Milano. Ha già ottenuto un brillante risultato: ha convinto il governo a puntare sulla città ambrosiana. Tutto questo in un momento d’incredibile distanza tra Milano e Roma: nella capitale la Sindaca Raggi ha iniziato ad amministrare nel segno della pulizia morale e dell’onestà; fa i conti tuttavia con una giunta in cui gli assessori sembrano fare a gara per dimettersi prima degli altri. Insomma, l’impressione è che in Campidoglio si brancoli nel buio. Se guardiamo a Milano sembra di essere su un altro pianeta. Qui domina la concretezza sui paroloni, l’agire paziente diretto al risultato effettivo. Per dirla con Max Weber, domina a Milano una zweckmässige Verwaltung, un’amministrazione orientata a uno scopo. In fondo, la città non ha mai cessato di essere asburgica in questo operoso riformismo finalizzato al progresso e al bene comune.

Due stile di governo diversi. Se la Raggi non ha esitato a rinunciare al progetto delle Olimpiadi per evitare fenomeni di corruzione e di malgoverno – un progetto che, se ben gestito, sarebbe stato una risorsa importante per lo sviluppo urbanistico di Roma – Sala si è affrettato a far firmare a Renzi il Patto per Milano impegnando il governo nazionale in corposi finanziamenti pubblici destinati alla rigenerazione della città: pensiamo soltanto allo Human Technopole nell’ex area Expo, un progetto fondamentale che consentirà alle università milanesi di essere coinvolte in un centro di ricerca internazionale sulle scienze della vita. Tempismo azzeccato quello di Sala, che ha saputo muoversi bene perchè conosce bene i punti di forza di Milano. E’ riuscito ad impegnare il governo a spendere risorse qui, in una metropoli che collabora con lo Stato facendo la sua parte. E’ il “conoscere per fare” di Romagnosi da cui siamo partiti.

Un’altra situazione che dimostra la fattiva operosità di Sala, la sua volontà di approfittare di ogni opportunità per il bene di Milano è stata la Brexit. Sala è andato a Londra, ha cercato di convincere i responsabili di importanti istituzioni europee a trasferire le loro sedi a Milano. Obiettivo ambizioso e al contempo difficile da raggiungere per le obiettive difficoltà in cui versa l’Italia. Eppure, una di queste istituzioni, l’Agenzia Europea per il Farmaco, sembra essere interessata a trasferirsi qui. Sala ha un dossier su questo tema. Milano è pronta a muoversi ma occorre il supporto del governo nazionale. Cosa farà Gentiloni? Sarà disposto a confermare l’asse di Renzi con Milano?

Nel segno di Romagnosi e di Cattaneo si pone infine il “Fare Milano”, il titolo che la giunta Sala ha scelto per riassumere il senso del suo operato nei prossimi 5 anni. Si tratta d’interventi complessi, che dovranno incidere in profondità affrontando in primo luogo il problema delle periferie. Grazie al “Patto per Milano” firmato dal Sindaco con il Governo nazionale, grazie anche all’intesa con il Governatore della Regione Lombardia Roberto Maroni, saranno destinati 356 milioni di euro per il recupero delle periferie. Fondi destinatati in gran parte, come hanno chiarito gli assessori Mirko Mazzali e Gabriele Rabaiotti, alla ristrutturazione delle case popolari nelle zone Lorenteggio-Giambellino e QT8-Gallaratese.

L’assessore all’urbanistica, Pierfrancesco Maran

Relativamente all’urbanistica verrà portato a compimento il recupero degli ex scali merci. La tabella di marcia fissata dall’assessore Pierfrancesco Maran è stringente: terminata la fase del confronto pubblico nel marzo 2017, l’accordo di programma verrà chiuso definitivamente nell’estate prossima per avviare le procedure dei concorsi, consentire gli usi temporanei degli spazi, elaborare i piani attuativi. I lavori per la rigenerazione degli scali verranno condotti tra il 2019 e il 2022. Come ho già avuto modo di ricordare in un articolo pubblicato in questa sede, il progetto è di fondamentale importanza per Milano. I diversi piani di edilizia sociale e residenziale, gli interventi per la realizzazione di vasti parchi verranno presentati dagli esperti di architettura e di urbanistica in incontri pubblici che si terranno a partire da dopodomani, dal 15 al 17 dicembre. Non mancate di iscrivervi e di partecipare numerosi!

L’assessore alla Mobilità, Marco Granelli

Importanti novità sono previste anche sul piano della mobilità, come ha sottolineato l’assessore Marco Granelli. Il completamento dei lavori della M4, è fissato per il 2022 con un anno di anticipo rispetto a quanto previsto originariamente. Il prolungamento delle linee metropolitane esistenti consentirà una migliore integrazione della città con l’area metropolitana. La M1 verrà portata da Sesto FS a Monza Bettola entro il 2020. Sul lato di Milano Bisceglie, i lavori per il collegamento con il quartiere Baggio-Olmi cominceranno nel 2021. Per la M5 si darà avvio agli interventi per le fermate Milano-Bignami-Monza città e Monza Ospedale San Gerardo. La tratta Milano Bignami-Monza città sarà attiva già nel 2020. Per quanto concerne la mobilità sostenibile, una novità importante sarà l’attivazione di una piattaforma tecnologica (MAAS: mobility as service) che consentirà via app o via Web di attivare alcune tipologie di abbonamento comprensive dell’utilizzo di treno, metro, autobus, bikemi, car-sharing, scooter sharing. Un servizio che andrà di pari passo con il potenziamento delle attuali dotazioni di biciclette, macchine e scooter e – dato più importante – con la costruzione di 55 aree di interscambio per la mobilità sostenibile.

In sinergia con i privati l’amministrazione Sala ha messo in campo svariati interventi nel campo del welfare e della cultura. Notevoli le iniziative culturali, dai city days (Bookcity a novembre, Prima Diffusa a dicembre, Museocity a marzo, Pianocity a maggio) alle settimane dedicate alle arti (Art Week in primavera, Music Week in autunno, Photo Week in estate, Movie week in inverno). Nel 2017 si terrà a Palazzo Reale una mostra dedicata ad Eduard Manet; le opere di Caravaggio saranno esposte nel biennio 2017/2018. Gli hub culturali gestiti da privati (Fondazione Feltrinelli in Porta Garibaldi inaugurata oggi, Fondazione Prada in Porta Romana/Ripamonti, Casva a QT8), i teatri pubblici alcuni dei quali riaperti al pubblico o costituiti ex novo (si pensi ad esempio al Teatro Lirico o al Teatro dell’infanzia e dell’adolescenza che verrà costruito ex novo in piazzale Maciachini), i musei e spazi espositivi (da Palazzo Citterio a Brera al Museo dell’Arte Etrusca in Corso Venezia) daranno alla città un’ulteriore visibilità internazionale, migliorando in prospettiva il già ottimo risultato di quest’anno: come ha osservato l’assessore alla cultura Filippo Del Corno, Milano è stata la città più visitata d’Italia nel 2016 (dati del Global Destination Cities Index).

L’unica mancanza, in questa visione concreta sul futuro della città illustrata da Sala, è stata l’indicazione di una data per il referendum sulla riapertura dei Navigli che, come il Sindaco ha annunciato in campagna elettorale, si terrà nel 2017. Attendiamo notizie su questo tema importante per il futuro urbanistico di Milano.

Capire chi siamo: online una Enciclopedia storica

Un’interessante iniziativa avviata dalla Società Storica Lombarda riguarda la compilazione della Enciclopedia delle famiglie lombarde: si tratta di una piattaforma informatica, già in parte accessibile in rete, i cui contenuti saranno accresciuti nei prossimi mesi. L’obiettivo – come ha ricordato Ottavio De Carli in un incontro organizzato il 22 novembre presso l’Archivio di Stato di Milano – è di mettere a disposizione del pubblico uno strumento di conoscenza storica rivolto non solo a specialisti, ma anche a persone appassionate di storia locale che desiderano disporre su Internet di una piattaforma d’immediata consultazione come avviene con Wikipedia; per quanto concerne la qualità dei contenuti disponibili, il modello sarà invece quello delle garzantine: il lavoro è gestito da una commissione scientifica di storici e specialisti: ricordo il direttore Stefano Levati (Università degli Studi di Milano), il coordinatore Ottavio De Carli, Fabrizio Alemani, Saverio Almini, Paolo Galimberti, Gabriele Medolago e Giovanni Necchi della Silva.

L’opera insisterà su un’area territoriale – la Lombardia – di dimensioni regionali o addirittura macroregionali a seconda del significato che si vorrà dare a questo termine: gli storici hanno infatti dimostrato che il nome “Lombardia” non si riferisce soltanto alla Regione attuale, la cui formazione risale alla fine del Settecento e ai primi anni dell’Ottocento. Occorre tener presente anche la “Lombardia storica”, l’antica area geografica ricordata da Montesquieu, estesa alla pianura padana centro-occidentale, comprendente parte del Piemonte, del Veneto e dell’Emilia Romagna. D’altra parte, non sarà fuori luogo ricordare che lo stesso Ducato di Milano in Età Moderna fu esteso fino ai primi del Settecento a territori che oggi fanno parte della Regione Piemonte: è il caso dell’alto e basso novarese, dell’alessandrino o del tortonese.

L’Enciclopedia è dedicata allo studio delle famiglie lombarde dal Medioevo all’età moderna e contemporanea. Ad essere analizzati, sulla base dei documenti conservati negli archivi pubblici e privati, saranno gli stili di vita, le abitudini, i ruoli politico istituzionali rivestiti dalle persone oggetto d’indagine.

Una parte importante di questo lavoro riguarderà le famiglie nobili, il cui studio consentirà di comprendere meglio la società d’antico regime focalizzando l’attenzione sulla vita del tempo, sulle relazioni e sul ruolo pubblico dei matrimoni tra famiglie di pari rango; matrimoni che portavano spesso all’accrescimento del patrimonio immobiliare e finanziario del casato.

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

La storia delle famiglie nobili lombarde consentirà inoltre di cogliere – meglio di quanto si sia fatto finora – il significato di comportamenti e di istituzioni assai diffuse nell’Europa d’ancien régime; situazioni difficilmente comprensibili al giorno d’oggi nelle loro dinamiche interne. Del tutto emblematica, a tal proposito, la figura del “cavalier servente”. Come ha rilevato lo storico Roberto Bizzocchi nell’incontro citato sopra, un esame del carteggio tra il conte Federico Confalonieri e la moglie Teresa Casati, risalente ai primi anni dell’Ottocento, ha consentito di cogliere la crisi del “matrimonio a tre” tipico della società settecentesca; un matrimonio in cui la figura del “cavalier servente”, scelto dal marito affinché la moglie potesse frequentare i salotti culturali al di fuori delle mura domestiche, svolgeva un ruolo importante. L’amore di Teresa per il marito, evidente nelle lettere che gli scriveva, lasciava trasparire una sfera di affetti già compresa nell’amore romantico di coppia formatosi nel XIX secolo. A Federico, assente da Milano, impegnato in un viaggio politico-diplomatico in Francia e in Gran Bretagna, Teresa scriveva affermando di non voler frequentare i teatri milanesi assieme agli accompagnatori che lui stesso le aveva scelto per la vita in società. La donna sentiva fortemente la mancanza del marito, il che lasciava trasparire un forte legame sentimentale tra i due, un affetto di coppia che tendeva ad essere meno presente nella società aristocratica del Settecento.

Per capire la distanza di un tale legame di natura già romantica rispetto ai formali rapporti di coppia dell’antico regime è utile ricordare il ben più saldo “matrimonio a tre” che caratterizzò la relazione settecentesca tra Laura Cotta, il marito Antonio Greppi e il cavalier servente Stefano Lottinger scelto dal marito per accompagnare la donna in società. Diversamente dai Casati e dai Confalonieri, Greppi apparteneva a una famiglia borghese originaria della bergamasca specializzata nel commercio all’ingrosso di lana e tessuti. L’ascesa sociale della famiglia avvenne a metà Settecento, quando Antonio ricevette dal ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, Gian Luca Pallavicini, l’incarico di gestire con altri soci l’appalto di riscossione delle tasse per conto del governo (la Ferma generale). Arricchitosi considerevolmente grazie all’impegno profuso in questa attività, il Greppi si trasferì a Milano ove acquistò una casa in via Sant’Antonio (sestiere di Porta Romana) che fece ristrutturare e ingrandire perché acquisisse i caratteri di una residenza elegante e fastosa. Negli anni Settanta, grazie ai servigi prestati all’imperatrice Maria Teresa, ottenne la nobilitazione della sua famiglia. Dal matrimonio con Laura Cotta aveva avuto sei figli maschi.

Le lettere della donna al marito, impegnato in alcuni viaggi all’estero, mostravano il rapporto d’interesse e di socialità mondana che la univa al Lottinger, importante funzionario asburgico di origine lorenese che ricoprì uffici di rilievo nella Lombardia austriaca: consigliere del Supremo Consiglio di Economia, membro della Giunta interina incaricata di amministrare le finanze, membro della Camera dei conti, dal 1780 al 1796 fu intendente generale di finanza nella Lombardia austriaca. La frequentazione con il Lottinger consentiva alla nobildonna di avere notizie aggiornate sulla politica del governo asburgico nel settore delle finanze; una messe d’informazioni assai utile al marito per il ruolo che questi, assieme ad altri soci, aveva rivestito per molti anni (dal 1750 al 1770) nella gestione della Ferma e per l’ufficio di consigliere nella Camera dei Conti dal 1770 al 1779.

Un’altra riflessione importante sulla storia delle famiglie lombarde nei secoli dell’Età Medievale e Moderna investe la sfera dei sentimenti tra genitori e figli. L’elevata mortalità infantile unita all’alto tasso di natalità rendeva tenue il legame di affetto dei padri verso i piccoli; un sentimento che tendeva a privilegiare per lo più i maschi primogeniti, sui quali si appuntavano i progetti di discendenza e di trasmissione patrimoniale del casato. Non stupisce a tal proposito, come fa notare ancora Bizzocchi, che nel diario compilato da un nobile lucchese (appartenente alla famiglia Bracci Cambini) la notazione più struggente sia quella riguardante la morte di un figlio di pochi anni, mentre la scomparsa della sorellina sia ricordata in modo quasi anonimo.

L’Enciclopedia sarà anche dedicata allo studio di famiglie borghesi che, soprattutto negli ultimi secoli dell’Età Moderna, hanno contribuito alla crescita culturale ed economica della società lombarda. Le carte conservate negli archivi riguardano non solo uomini, ma anche donne che hanno reso grande Milano in campi di grande attualità quali la moda, il design, l’architettura. Come ha sottolineato la storica Maria Canella, l’opera di valorizzazione di queste “carte politecniche” consentirà di dare voce “a persone che la storiografia ha trascurato finora”.

Un altro terreno d’indagine sarà dedicato alla storia di famiglie i cui membri si distinsero nell’atletica agonistica tra Otto e Novecento.

L’Enciclopedia della Famiglie Lombarde è liberamente accessibile a questo indirizzo.