Archivi categoria: Milano

“Amo vestire, non sopporto chi si copre”

Lino Ieluzzi si racconta: “Sono cresciuto in una famiglia severa vecchio stampo. Mia mamma era una sarta e mi ha trasmesso la passione per i vestiti. Ho iniziato a lavorare presto”

Per chi proviene dal centro, via Antonio Scarpa è una delle prime strade che si incrociano sul lato destro con corso Vercelli. Siamo in una fascia della città vicinissima alla cerchia dei Bastioni, che un tempo faceva parte del Comune dei Corpi Santi, a due passi dal sestiere di Porta Vercellina. Una zona il cui paesaggio, fino all’Unità d’Italia, era dominato da campi, rogge, canali ai lati dell’antica strada verso Vercelli. All’inizio del corso si trovava l’Osteria della Berta Filava, ritrovo per cacciatori e compagnie di amici che ne apprezzavano la vicinanza alle campagne circostanti. L’area fu densamente urbanizzata nel periodo successivo e divenne – a partire dagli anni Ottanta del Novecento – uno dei quartieri più importanti della città. Oggi, corso Vercelli, con le sue vie laterali, resta un ricco quartiere di Milano, anche se negli ultimi anni ha cambiato la sua identità. 

Mercoledì entro in via Scarpa, la percorro per alcuni metri e subito vedo, sulla soglia della sua boutique, Lino Ieluzzi, con cui ho un appuntamento alle 15 per un’intervista. Due taxi sono in sosta davanti a questo negozio di notevoli dimensioni: cinque vetrine ben riconoscibili dalle eleganti tende parasole di colore verde scuro, ove risaltano i fregi dello stemma dell’azienda: “AB” (Al Bazar). Lui mi saluta con affabilità, scambiamo quattro chiacchiere con i dipendenti della sua boutique. Vedo alcuni clienti aggirarsi per questi ambienti eleganti, tra raffinate scrivanie in legno, tavolini, mensole, armadi di squisita fattura. Ieluzzi mi accompagna in un piccolo spazio nel cortile sul retro: ci sediamo ai lati di un semplice tavolino da giardino a forma circolare. Qui ha luogo l’intervista. 

Lino Ieluzzi in una foto recente tratta dal suo account Instagram

Chi è Pasquale Ieluzzi conosciuto come “Lino Ieluzzi”,  insignito il 27 dicembre 2010 del titolo di  “Commendatore” dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano su iniziativa del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?  Classe 1945, Ieluzzi con la sua boutique “Al Bazar” è da tempo una istituzione nella Milano dell’alta moda uomo. Intervistarlo mi consente di accedere alla preziosa testimonianza di un imprenditore che si è fatto da sé, si è costruito una posizione nel commercio di vestiti e questo unicamente grazie alla passione, alla cura meticolosa nel lavoro, nel lanciare il suo stile di abbigliamento.

In che tipo di famiglia sei cresciuto? Quale mestiere facevano i tuoi genitori?

“Sono nato in una famiglia vecchio stampo di origini pugliesi. I miei genitori abitavano a Baggio. Io, mio fratello e mia sorella siamo cresciuti in un ambiente povero ma dignitoso, in una famiglia in cui vigevano le dure regole di mio padre, che lavorava nel corpo della guardia di finanza. A lui dovevamo sempre dare del ‘voi’ quando ci rivolgevamo alla sua persona.  Mia madre invece lavorava in casa, faceva la sarta. Ero certamente più legato a lei, che mi ha trasmesso il gusto per il vestire”.  

Come sono stati gli anni della tua adolescenza? Qual è stato il tuo percorso di studi prima di lavorare?

“Ho iniziato a lavorare presto, prima in un negozio di mobili a Baggio, poi in una ditta di traslochi. Ricordo bene quando che mi chiamavano per smontare e montare mobili. Era un modo per guadagnare qualcosina. Certo, un periodo minimo di formazione ho dovuto farlo: frequentai le scuole serali. Avevo una gran voglia di riuscire, di farcela nella vita, di guadagnarmi una posizione che mi potesse consentire di vivere bene. Era la voglia di farcela a spingermi in avanti. Non mi facevo problemi nel tentare un lavoro che attirava la mia curiosità: mi mettevo in gioco. Ho seguito anche un corso di parrucchieri da donna in corso Vercelli. Non stavo mai con le mani in mano, come si dice. Tieni presente che provenivo da una famiglia che non navigava nell’oro: i miei genitori facevano sacrifici per mantenerci. Sentivo l’esigenza di uscire dalla povertà, seppur dignitosa, in cui ci trovavamo”. 

Quando hai capito che il commercio nell’alta moda uomo sarebbe stata la tua strada?

“La moda mi è sempre piaciuta. Come ti dicevo, mia mamma era sarta. Con i primi soldi che feci con i lavoretti di cui ti parlavo, iniziai ad acquistare grandi stock di abiti e li vendevo fuori dalle scuole e dalle università. Gli anni Sessanta sono stati per me un periodo di continua sperimentazione: ho lavorato in un parrucchiere da donna, poi in una ditta di orologi petrolio, finché sono stato impiegato come commesso in un negozio di abbigliamento uomo, qui, in via Scarpa”. 

Ieluzzi mi accompagna in uno dei molti ambienti della sua boutique e mi dice:

Lino Ieluzzi in una foto dei primi anni Settanta

“Vedi questo spazio?  Qui si trovava il negozio di appena 20 metri quadri, con una sola vetrina sulla via, in cui iniziai a lavorare come commesso. Allora – anni Sessanta e primi Settanta – era una semplice jeanseria. I titolari erano una famiglia romagnola: eravamo in due a lavorare come commessi. Vendevamo, oltre ai jeans, camicie indiane, giacche usate. Era un mondo sideralmente opposto rispetto a quello che sarebbe arrivato di lì a poco. La gente si vestiva in modo semplice, l’uomo era completamente dimenticato nella cura del vestire. Dominava la cultura hippie, il culto della libertà interiore senza regole,  le simpatie di tanti giovani andavano verso forme di egalitarismo e di comunitarismo, per non parlare di tanti fanatici ubriacati dall’ideologia comunista o da quella fascista”.

Quelli sono stati anni difficili. La contestazione nel 1968, la bomba di piazza Fontana nel 1969 e gli anni Settanta, gli anni di Piombo con le violenze dei gruppi terroristici. Tu come li hai vissuti?

“Vero, sono stati anni controversi, di passaggio ma anche pieni di sfide e di opportunità. Quando i titolari della jeanseria si ritirarono, nel 1971, ebbi l’opportunità di proseguire nell’attività rilevando il negozio. Nel 1975 chiamai Maurizio Morazzoni, un mio caro amico d’infanzia che aveva fatto alcune esperienze sul campo e gli chiesi di entrare come socio nella società Al Bazar Srl. Fu allora che iniziò la nostra impresa in un mondo completamente nuovo: trasformammo radicalmente quel piccolo spazio di 20 metri quadrati. Da attività commerciale di jeanseria diventammo un negozio completamente diverso.

Fu un’intuizione. Capii che la moda stracciona non sarebbe durata a lungo: in quella Milano di metà anni Settanta intravedevo il profilarsi di una società nuova, fatta di uomini nuovi, che sentivo avrebbero contato moltissimo di lì a poco; una generazione di imprenditori tanto ambiziosi quanto determinati nel lavoro per conseguire il successo nell’intrapresa privata. Capii in anticipo che l’uomo, tanto smitizzato fino ad allora, sarebbe stato più ambizioso e avrebbe meritato di essere vestito con la stessa cura e attenzione ai particolari che si seguono nell’abbigliamento femminile. Abbassai la saracinesca e, quando la rialzammo, il negozio era completamente diverso: sobrio, elegante, con abiti gessati, giacche raffinate al posto delle vecchie ceste ove prima erano ammassate le semplici camicie americane. 

A guidarmi è stata la passione, la fiducia nelle mie capacità, l’ottimismo e il desiderio di costruirmi una vita fatta di benessere economico. Con il nuovo negozio iniziammo a vendere bene: stavamo conseguendo ottimi risultati, il che non passò inosservato. Il risultato fu che ben presto fummo vittima di quello che all’epoca si chiamava “esproprio proletario”: una rapina a mano armata. Però, ripeto, fatta eccezione per quella brutta pagina, ricordo con piacere e un po’ di nostalgia gli anni Settanta! Sarà che ero anch’io un’altra persona: un ragazzo giovane, bello, con tanti capelli biondi e una voglia matta di affermarmi, di farmi strada. Volevo realizzarmi in quello che avevo ormai scoperto essere il lavoro per cui mi sentivo portato: il commerciante”.

Gli anni Ottanta hanno segnato un cambiamento nei costumi degli italiani, nel loro stile di vita. I cittadini volevano dimenticare gli anni della tensione, delle sparatorie, degli estremismi di destra e di sinistra. 

Raggiunsero il successo tante aziende nella moda, nel design, nell’artigianato: il Made in Italy si affermava con le produzioni di alta qualità. Gli italiani si arricchivano, spendevano di più. Nel privato si affermava una classe di piccoli e medi imprenditori di notevole livello, determinati nella realizzazione dei loro obiettivi.

Berlusconi, ad esempio, dopo aver costruito quartieri e case residenziali di notevole eleganza immerse nel verde, negli anni Ottanta investe con profitto nella tv commerciale. Il successo imprenditoriale del Cavaliere fu clamoroso. Cosa ricordi di quegli anni per quanto riguarda il tuo lavoro?

“La gente amava vestirsi con stile. Noi abbiamo vissuto bene quel periodo. Tante persone che lavoravano nelle tv e nelle aziende di Berlusconi venivano da noi per acquistare abiti eleganti. Il Cavaliere era attentissimo alla forma, all’eleganza nel vestire. Ci teneva: per lui lavorare sulla propria immagine, sapersi presentare in modo impeccabile era un requisito fondamentale perché, diceva, ‘voi grazie alla televisione entrate nelle case degli italiani’. 

Per noi furono anni di grandi guadagni. Raggiungemmo un volume di affari tale da consentirci di ingrandire la superficie del negozio arrivando alle dimensioni attuali: questo fu possibile perché acquistammo i locali di un colorificio e di un ristorante che nel frattempo avevano cessato l’attività. L’allestimento degli spazi e l’arredamento caratteristico che si vede ancora oggi con i mobili in legno di noce di alta finitura sono interventi che feci proprio allora. 

Cosa ricordi di quella Milano? La Milano socialista di Tognoli e Pillitteri? 

Era una città in cui le persone si aiutavano, sicura di notte, in cui era possibile – per capirci – farsi una partita a pallone per le vie del centro e tornare a casa facendo l’autostop. Un altro mondo rispetto alla Milano di oggi, sconvolta da tanti reati di microcriminalità con scippi e violenze che sono all’ordine del giorno.

Arrivano poi gli anni Novanta, che segnarono una svolta nel bene e nel male. Caduto il Muro di Berlino, scoppiò il caso Tangentopoli con decine di politici arrestati e messi sotto processo. Milano viene amministrata da giunte di colore politico assai diverso rispetto a quelle che erano state protagoniste della vita cittadina fin dal dopoguerra. È la Milano di Marco Formentini (primo sindaco leghista di una grande città ad essere eletto direttamente dai cittadini nel 1993), poi di Gabriele Albertini che amministrò Milano per ben due mandati dal 1997 al 2006. Come sono stati questi anni per il tuo lavoro?

Lino Ieluzzi nella sua boutique in una foto degli anni Novanta.

“Abbiamo continuato a fare affari”.

Erano gli anni in cui l’amministrazione comunale vietava la libera circolazione di auto introducendo le “targhe alterne”; nel 1990-91 scoppiò la prima guerra del Golfo con l’aumento del prezzo del petrolio e le conseguenti ricadute nella contrazione dei consumi. In un’intervista rilasciata al “Corriere del Sera” nel 1990 sostenevi che, diversamente da altri negozianti, voi eravate riusciti ad uscirne bene e motivavi il buon andamento delle vendite con il rapporto di fiducia con la clientela. Affermavi: “le vendite nel 1990 sono state uguali all’anno passato…credo che i risultati vengono quando alla base c’è un buon servizio e una serietà nel rapporto con la clientela. Noi, per esempio, non abbiamo mai fatto e non faremo mai i saldi. Per correttezza verso chi compra sempre da noi”.

Confermo quello che dissi 35 anni fa. Mentirei tuttavia se ti dicessi che quelli sono stati anni facili. Nel 1990 una banda di criminali siciliani telefonò in negozio chiedendomi il pizzo e minacciandomi di morte. È stato un periodo difficile, in cui vissi per sette-otto mesi con la scorta che mi accompagnava in tutti i miei spostamenti, in particolar modo da casa al negozio. La questura mise sotto controllo i telefoni per intercettare le chiamate dei criminali. Tutto alla fine si risolse senza danni. Consapevoli che la polizia era sulle loro tracce, quei criminali mi lasciarono in pace. 

Il periodo tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila è stato memorabile. Anzitutto ho introdotto nuove collezioni di abiti, che hanno ulteriormente arricchito il negozio con le ormai celebri giacche colorate in doppiopetto e monopetto. 

Ricordo poi le iniziative imprenditoriali all’estero, dove iniziarono a conoscermi negli ambienti del commercio: ho venduto le mie collezioni Al Bazar nei mall in Corea del Sud, in Giappone. In Corea mi recavo mediamente due volte all’anno: rimanevo là venti giorni per controllare l’esposizione dei miei prodotti nei negozi con cui avevamo stipulato affari. In quei paesi fui accolto con tutti gli onori e mi riservarono un trattamento speciale. Ricordo che venivano a prendermi in aeroporto con un auto di lusso, come se fossi un capo di Stato. Pensa che in Corea del Sud mi fecero ottenere un permesso di poche ore per visitare una fabbrica di vestiti che aveva sede in Corea del Nord: fu un’esperienza istruttiva. 

Lino Ieluzzi in uno scatto fotografico di Scott Schumann in S. Schumann, “The Sartorialist”, 2009.

Le mie apparizioni sulle riviste di moda iniziarono ad essere numerose. Quelli furono anni in cui mi ritrassero fotografi del calibro di Scott Schumann, le cui immagini apparvero nella rivista “The Sartorialist”. 

So che abiti in centro, in zona Porta Ticinese, non molto distante da piazza XXIV maggio. Perché hai scelto questa parte della città invece della zona di corso Vercelli dove hai il negozio?

Sono molto legato alla casa in cui abito: me la sono acquistata con i guadagni di una vita. Ho scelto questa zona perché mi piace passeggiare lungo la Darsena e i Navigli. È una parte di Milano che mi è particolarmente cara: in fondo mi ricorda Parigi e il fluire della Senna”.  

Cosa pensi della zona in cui ci troviamo, il quartiere che ti ha formato come imprenditore, in cui hai mosso i primi passi e in cui sei rimasto con la tua splendida boutique?  

“Corso Vercelli era fino a quindici anni fa la seconda via più importante di Milano nel campo delle boutique di alta moda, dopo via Montenapoleone. Oggi la realtà è un po’ cambiata”. 

E via Antonio Scarpa?

“Io sono qui da più di cinquant’anni e contribuisco tuttora a mantenere elevata la qualità dell’offerta nel campo del commercio. Da alcuni anni hanno aperto altri negozi che contribuiscono ad assicurare alla via questi livelli.

Tre proposte per Milano

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno”, 27/06/2021

Gli obiettivi ambiziosi che Milano dovrà raggiungere nei prossimi anni sono quelli con cui si confrontano le città più avanzate del pianeta riunite in C40 Cities: oltre alla riduzione dell’inquinamento da combustibili fossili, la formazione di spazi urbani in cui siano garantiti standard elevati di vivibilità e di cura per l’ambiente. In realtà, una delle sfide maggiori per le metropoli di tutto il mondo continuerà ad essere la riduzione del traffico automobilistico. 

In via generale la prossima amministrazione dovrà intervenire con maggior forza su tre fronti. Anzitutto occorre aumentare la rete delle metropolitane. Bene il prolungamento della M5 verso Monza e della M1 verso Baggio; ci sono però aree della città (come la zona sud verso Noverasco o Ponte Lambro) che non sono servite bene. Si riprenda il progetto della M6.

Il secondo fronte riguarda la formazione di vere e proprie autostrade per le biciclette che colleghino in modo organico le periferie con il centro. E’ vero che si sono realizzate piste ciclabili di rilievo come in corso Venezia, in corso Buenos Aires o in viale Monza. Serve tuttavia una rete organica di percorsi che offra ai cittadini il mezzo per raggiungere il centro in sicurezza, lungo tracciati che tutelino la salute degli utenti limitandone la diretta esposizione agli scarichi di camion e automobili. Oggi questo non avviene. Se vogliamo che Milano sia davvero una città degna di stare sullo stesso piano di metropoli quali Amburgo, Copenhagen, Parigi e Berlino, serve una rete ciclabile sicura, pulita, in grado di essere utilizzata da tutti i cittadini metropolitani. Ad Heidelberg questo già avviene, ma il caso di Berlino è ancor più importante, non foss’altro perché si tratta di una metropoli che per dimensioni è paragonabile a Milano. Nella capitale tedesca è in fase di concreta realizzazione “InfraVelo”, una vera e propria rete di piste ciclabili attrezzate con apposita segnaletica e stazioni di deposito per le bici. Come ha affermato la senatrice tedesca responsabile per l’ambiente, il traffico e la difesa del clima, Regine Günther: “Der Aufbau einer sehr guten Radinfrastruktur ist eine der zentralen Aufgaben in den kommenden Jahren. Denn je besser die Radwege, desto mehr Menschen steigen aufs Fahrrad um. So wird Berlin sauberer, sicherer und klimafreundlicher“. (Traduzione. La creazione di una buona infrastruttura per biciclette sarà uno dei compiti centrali nei prossimi anni. Tanto migliori saranno le piste ciclabili, quanto più persone passeranno ad usare le biciclette. Così Berlino diventerà più pulita, sicura e amica del clima”). Milano dovrà essere all’altezza di questa grande trasformazione urbanistica, se vorrà competere ad armi pari con le metropoli europee.

Il terzo intervento investe il tema del risparmio nel consumo energetico degli edifici: molto deve essere fatto, soprattutto per i vecchi fabbricati. Varrà la pena ricordare a tal proposito che la città di Heidelberg negli ultimi dieci anni ha ridotto del 50% i consumi di energia in edifici datati (scuole e altri stabili). 

Idee per una riforma: la regione metropolitana lombarda

Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giorno” del 15/4/2021

Da una ricerca curata da Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulle condizioni in cui vivono gli abitanti della città metropolitana milanese è emerso come il 60% della popolazione ritiene fondamentale per la ripresa economica una costruzione adeguata dell’ente “Città metropolitana”. E’ evidente che fino ad oggi tale istituzione non ha funzionato: ha sollevato unicamente conflitti tra i municipi. Mai come in questi tempi si rende necessario un intervento legislativo teso a migliorare tale comparto amministrativo.

Nel programma della “Città a 15 minuti” il Sindaco Sala intende garantire nei quartieri migliori servizi pubblici a cittadini che, cessata la pandemia, continueranno in più occasioni a lavorare da casa. Perché questo piano non si riduca a una visione localistica, occorre però un intervento coraggioso: la divisione della città nei suoi antichi comuni. Questi, assieme ai municipi della Città metropolitana, a quelli della provincia di Monza-Brianza, a quelli legati a Milano ma inclusi nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Pavia, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, dovranno formare una grande Regione metropolitana. Il Presidente di questo nuovo ente, eletto direttamente dai sette milioni di cittadini che vi abitano, dovrebbe risiedere a Palazzo Marino e dividere con i Sindaci dei municipi l’amministrazione nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, dell’urbanistica, dei parchi, della viabilità.

La grande Milano non potrà che essere una Regione amministrativa, al cui interno vi sia un fitto reticolo di comuni integrati nella nuova istituzione. Altrimenti la “Città a 15 minuti” rischia di essere un’idea grettamente municipalista, un po’ come quei milanesi che – come scriveva Ludovico di Breme a Federico Confalonieri in una lettera del 16 maggio 1814 – non sapevano guardare oltre “il borgo degli Ortolani”. 

Dalle carte d’archivio aspetti poco conosciuti sulla vita di Leonardo

Allestita nel palazzo dell’antico Collegio Elvetico di via Senato una notevole esposizione di documenti sul genio toscano.

Cessata la paura per il Coronavirus che ha suscitato nella collettività reazioni di panico e paure ingiustificate, oggi si può dire che Milano abbia ripreso a respirare e con ogni probabilità nei prossimi giorni verranno riaperti musei e istituti culturali. Merita in proposito di essere visitata un’interessante mostra su Leonardo Da Vinci allestita nel palazzo ove ha sede l’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10.

Inaugurata il 16 gennaio scorso e aperta fino al 28 marzo, l’esposizione non si segnala soltanto per il ricco materiale documentario. A suscitare curiosità è anche il percorso multimediale allestito nella mostra che, rivolto a un pubblico non specialistico, conduce quasi per mano il visitatore alla scoperta della vita di Leonardo e del mondo in cui visse. Due video ripercorrono le varie tappe della sua esistenza nell’Europa rinascimentale.

Leonardo Da Vinci, La Vergine delle Rocce. Parigi, Museo del Louvre.

Tra i documenti esposti nella mostra è opportuno ricordare il contratto che Leonardo, giunto da un anno a Milano, firmò nel 1483 con la confraternita dell’Immacolata Concezione per la realizzazione di un dipinto da collocare nella chiesa di San Francesco. Questa basilica oggi non esiste più: venne demolita negli anni del dominio napoleonico, quando il governo del Regno d’Italia costruì in quell’area una caserma destinata ai Veliti, uno dei corpi militari istituito da Napoleone re d’Italia. Si tratta dell’attuale Caserma Garibaldi, a pochi passi dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Però all’epoca di Leonardo la chiesa di San Francesco non solo esisteva, ma era una delle più importanti nel panorama cittadino. Essa era aperta al pubblico, gestita dai frati francescani che vivevano nel convento attiguo. Come ricorda Carlo Bianconi, estensore di una interessante guida artistica di Milano pubblicata nel 1795, la basilica fin dal Medioevo era addirittura uno dei templi più grandi della città quanto all’estensione della superficie. Nel contratto, che Leonardo aveva firmato con i membri della confraternita, l’artista era tenuto a realizzare un dipinto avente per oggetto la Vergine Maria e il Bambin Gesù. Le fasi del lavoro furono tuttavia tormentate. La scelta del soggetto su cui venne impostata la narrazione pittorica deluse i committenti: i religiosi pensavano probabilmente che la Madonna dovesse essere dipinta nel rispetto della tradizione e non si aspettavano che Leonardo – agendo per così dire “di testa propria” e ultimando il lavoro dopo molto tempo – realizzasse un’opera sui generis come la Vergine delle rocce , un capolavoro dell’arte pittorica. Nella mostra è esposto il contratto originale del 1483 che si è sopra ricordato: Leonardo lo firmò scrivendo il proprio nome in minuscolo, un errore che i grafologi hanno fatto risalire al disagio con cui visse la sua condizione di figlio illegittimo.

Donato di Montorfano, La Crocifissione, con interventi di Leonardo nel ritratto della famiglia Sforza. Parete Sud del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano.

Il resto dei documenti che sono esposti al pubblico copre un periodo storico esteso a tutta l’Età Moderna (secoli XVI-XIX). Riguardano in larga parte le fasi di realizzazione del celebre Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. Una delle carte più importanti è il reclamo del duca Ludovico il Moro rivolto a Leonardo: questi era sollecitato a portare a termine il suo capolavoro nella parete nord del refettorio dei domenicani. Tale insistenza era dovuta all’urgenza di vedere ultimata la pittura anche nella parete sud, ove Donato di Montorfano andava dipingendo la celebre Crocifissione. Il duca di Milano voleva che Leonardo ritraesse, in questa parete, i membri della sua famiglia sempre con la tecnica, già adoperata per il Cenacolo, della pittura a secco. Oltre alla sua stessa persona, dovevano essere ritratte la moglie Beatrice D’Este e i figli: un reclamo che non sortì però i suoi effetti se pensiamo che noi oggi possiamo vedere queste figure solo abbozzate nella parete sud. Come si può facilmente immaginare, il documento del Moro riveste un’importanza straordinaria per gli storici: aprendo un filone di ricerche oggi pressoché inesplorato, esso consente di verificare se le figure della famiglia Sforza tratteggiate ai piedi della Crocifissione siano effettivamente attribuibili alla mano di Leonardo.

L’annale 2019 dell’ “Archivio Storico Lombardo” pubblicato dalla casa editrice Scalpendi.

In riferimento alle celebrazioni per il cinquecentenario dalla morte di Leonardo, occorre ricordare due saggi importanti sull’argomento contenuti nell’ultimo numero dell’Archivio Storico Lombardo (2019), l’annale pubblicato dalla Società Storica Lombarda che approfondisce con studi rigorosi temi afferenti alla storia del territorio lombardo in età medievale e moderna. Il primo contributo, dello storico dell’arte Edoardo Rossetti, Un diluvio di appunti: l'”Archivio Storico Lombardo” e qualche nota inedita su personaggi vinciani (Evangelista da Brescia e Pietro Monte) (pp.221-248), si segnala per la novità riguardante una più precisa individuazione del luogo in cui si trovava la celebre vigna che Ludovico il Moro donò a Leonardo da Vinci. Muovendo dallo studio di un documento relativo all’acquisto di un terreno, Rossetti è riuscito a localizzare con precisione il luogo della vigna, che si trovava nel sestiere di Porta Vercellina. Essa confinava da un lato con l’antico naviglio che scorreva nell’attuale via Carducci, dagli altri lati con le proprietà dei gesuati di San Gerolamo e di altri privati. Si trattava di una posizione di assoluto rilievo nella Milano rinascimentale, a poca distanza dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, dall’attiguo convento dei domenicani e dal quartiere che il Moro aveva voluto formare tra le attuali vie Zenale, San Vittore e Corso Magenta affinché potessero abitarvi i membri più fedeli del suo governo.

Il secondo saggio dello studioso Cesare S. Maffioli, Alle origini del mito di Leonardo Da Vinci ingegnere dei navigli di Milano (pp.249-270), ricostruisce le origini cinque-seicentesche di una vecchia tesi secondo la quale il genio toscano sarebbe stato l’inventore del naviglio Martesana e delle chiuse. Si tratta, come si può facilmente constatare, di un errore storico perché il sistema delle conche per gestire i dislivelli e i salti d’acqua esisteva da tempo nel ducato di Milano; inoltre varrà la pena ricordare che il Naviglio Martesana venne costruito sotto il ducato di Francesco Sforza (1450-1466), molto tempo prima quindi dell’arrivo di Leonardo in città. L’autore del Cenacolo contribuì invece a perfezionare il sistema dei navigli, lavorando alla conca di San Marco che consentiva di collegare la Martesana con la Fossa Interna del centro cittadino, resa in quell’occasione navigabile e collegata al Naviglio Grande presso la pre-esistente Conca di Viarenna (oggi via Conca del Naviglio).

A Leonardo si dovette inoltre, negli anni del dominio francese seguiti alla cacciata del Moro, l’idea di elaborare un progetto per la navigazione dell’Adda dal Lago di Como fino all’incile del Naviglio Martesana presso Trezzo, il che avrebbe consentito di navigare da Lecco fino a Milano mediante il trasporto di merci e persone. Un’idea per nulla fuori luogo all’epoca, se pensiamo che un risultato analogo era stato conseguito dai milanesi fin dal XIII secolo mediante la realizzazione del Naviglio Grande, che collegava il Lago Maggiore con la Darsena cittadina: in quell’occasione tuttavia le opere non si erano rivelate particolarmente difficili, non trovandosi in quei luoghi un dislivello imponente tra la parte pedemontana e la pianura. Cosa diversa era invece la zona a nord-est di Milano, ove l’Adda scorreva in un letto accidentato e scosceso. Molti anni dopo l’idea leonardesca venne ripresa dall’ingegnere Giuseppe Meda, che nel 1590 ottenne l’approvazione delle autorità spagnole al suo progetto di naviglio. Le operazioni, quantunque iniziate con i migliori auspici, vennero tuttavia interrotte a seguito di alcune calamità naturali (inondazioni ripetute dell’Adda), ma soprattutto per gli scontri ripetuti che avevano opposto il Meda ai colleghi che lo affiancavano nell’esecuzione dell’opera. Inoltre la sua morte (1599) finì con il bloccare definitivamente i lavori che pure erano stati iniziati lungo il corso dell’Adda. Com’è noto, il Naviglio immaginato da Leonardo venne costruito solo nella seconda metà del Settecento: il canale – il Naviglio di Paderno – fu ultimato nel 1777 sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo negli anni del dominio austriaco della Lombardia.

Il cuore pulsante di Milano

Un libro ripercorre la storia della città ambrosiana dalle origini fino ai tempi presenti, individuandone i tratti peculiari e le costanti nel tempo.

Negli ultimi anni la formula “modello Milano” viene costantemente ripetuta da politici, esponenti della classe dirigente e da imprenditori per descrivere un tipo di convivenza civile – quella milanese – che mette al centro la solidarietà e l’operosità dei suoi membri, i quali lavorano al servizio della comunità facendo ciascuno la sua parte. E’ un termine spesso abusato, che trova però un suo fondamento storico: nel corso dei secoli, dalla tarda antichità al Medioevo, dall’Età Moderna ad oggi, la città di Ambrogio ha saputo crescere e progredire grazie alla capacità dei milanesi di rispondere concretamente alle sfide dei tempi: le fratture e le violente divisioni interne – che pure vi furono tra le diverse comunità e famiglie – vennero di volta in volta ricomposte in nome del bene comune. In particolar modo a partire dal Medioevo, la società milanese nelle sue articolazioni cetuali riuscì a intessere con i reggitori del potere un dialogo costruttivo per la tutela dei suoi interessi economici e politici.

“The Milan’s Heart. Identity and History of a European Metropolis”, edited by Danilo Zardin, Milano, Scalpendi editore, 2019, pp.207, 15 euro.

Questa caratteristica di lungo periodo nella storia di Milano è al centro del bel libro The Milan’s heart. Identity and history of a European metropolis (Scalpendi Editore, Milano 2019, 207 p.): si tratta della nuova edizione in inglese, corredata da un elegante apparato di immagini, di un volume curato dal professor Danilo Zardin nel 2012 avente per titolo Il Cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Rizzoli editore). Vi sono raccolti saggi di storici che hanno posto al centro della loro analisi scientifica il ruolo di Milano nella civiltà europea e i tratti distintivi della sua costituzione interna.

Quali sono gli elementi di lunga durata che caratterizzano il senso di appartenenza alla comunità milanese? In primo luogo, il civismo e una operosa solidarietà, la capacità di accettare il diverso raccogliendo le sfide dei tempi per un modello innovativo di convivenza. Questo avvenne ad esempio nella Milano capitale dell’Impero Romano d’Occidente, quando nel 313 d.C. l’imperatore Costantino vi pubblicò il celebre editto di tolleranza che consentiva ai cattolici di praticare liberamente il loro culto non diversamente da quanto i Romani avevano permesso fino a quel momento alle altre confessioni religiose. Nasce qui la prima forma di quel “modello Milano” cui si è fatto cenno poco sopra, esempio di convivenza tra diversi che si rispettano, vivono e lavorano nell’obbedienza alle leggi.

Agostino Comerio, “Ritratto dell’imperatrice Maria Teresa di Asburgo”, 1834, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Salone Maria Teresa.

Un secondo tratto distintivo di Milano risiede nel suo spirito riformatore, nella capacità di aprirsi al nuovo, di adattare le istituzioni e le politiche di governo ai bisogni della società. Un caso per certi versi emblematico è costituito dal riformismo settecentesco che svecchiò l’amministrazione del Ducato di Milano avvicinandola a quella di uno Stato moderno. In effetti, come ha dimostrato Carlo Capra, in Lombardia le riforme absburgiche furono portate avanti per volontà dei governanti austriaci (l’imperatrice Maria Teresa di Asburgo, l’imperatore Giuseppe II) e videro l’attivo coinvolgimento di funzionari provenienti da altri territori della monarchia (basti pensare al cancelliere di Stato, il viennese di origini morave Anton Wenzel von Kaunitz Rittberg, al trentino Carlo Giuseppe di Firmian, all’istriano Gian Rinaldo Carli, al toscano Pompeo Neri); non va tuttavia sottovalutato il contributo di un patriziato milanese aperto al nuovo, tra i cui esponenti più noti val la pena ricordare Cesare Beccaria e Pietro Verri: dapprima quali intellettuali attivi nel celebre periodico “Il Caffè”, poi nel ruolo di funzionari pubblici al servizio della monarchia austriaca, essi parteciparono attivamente all’attuazione delle riforme illuminate nei campi della giustizia, dell’economia, dell’agricoltura, del commercio. Le riforme del Settecento illuminato in Lombardia (ricordiamo ad esempio quella sull’autoamministrazione delle comunità locali del 1755 o del catasto particellare del 1760), costituirono il primo stadio di un rinnovamento istituzionale che toccherà il vertice negli anni della Repubblica Italiana e del Regno italico (1802-1814), quando il governo napoleonico avrebbe contribuito in modo decisivo a rinnovare le strutture della società. Le riforme absburgiche e napoleoniche fecero di Milano un vero e proprio laboratorio della modernità e questo nonostante le resistenze conservatrici che pure vi furono.

Filippo Abbiati, Solenne ingresso di San Carlo Borromeo a Milano, 1670-1680, Milano, Duomo.

Un altro esempio di riformismo autenticamente milanese riguarda il governo della chiesa ambrosiana. Esso è costituito dall’azione incisiva dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, il quale negli anni del suo ministero al vertice della curia milanese (1564-1584) fece della diocesi un territorio all’avanguardia nell’applicazione rigorosa dei canoni della Riforma Cattolica fissati dal Concilio di Trento. Il riformismo borromaico si radicò in profondità: le articolazioni cetuali della società milanese furono informate allo spirito di una devotio vissuta con appassionato fervore. Il coinvolgimento del fitto tessuto delle confraternite laicali, la fondazione di seminari e collegi per la formazione del clero, le Scuole della Dottrina Cristiana per l’educazione dei giovani, la pubblicazione di opuscoli e libri in italiano per aiutare i laici ad affrontare le difficoltà della vita orientando le opere allo spirito cristiano, furono interventi che segnarono profondamente l’identità milanese. A tal proposito, facendo stampare in italiano catechismi, testi contenenti istruzioni morali, libri spirituali e pedagogici per ciascun ordine o categoria della società (militari, padri e madri di famiglia, capi di bottega), il Borromeo diede un contributo di primo piano alla diffusione dell’alfabetismo in Lombardia già alla fine del XVI secolo. Questo riformismo ambrosiano venne continuato, con accenti e strategie diverse, dal nipote Federico Borromeo (arcivescovo dal 1595 al 1631) e dal successore di questi, il cardinale Cesare Monti (1631-1650). Come ha messo in evidenza il professor Danilo Zardin nel saggio Da Carlo a Federico Borromeo: alle origini di una nuova identità “ambrosiana” (nella edizione inglese From Carlo to Federico Borromeo: at the Origins of a new “ambrosian identity”, pp.95-102), alla battagliera opera di San Carlo per un riforma della società che lo portò a scontrarsi in più occasioni con le istituzioni civili del Ducato di Milano, i due presuli sostituirono una più prudente azione pastorale che puntò soprattutto a rafforzare le istituzioni culturali nella diocesi per una discreta ma non meno profonda formazione degli spiriti: basti pensare alla Biblioteca Ambrosiana aperta dal cardinal Federico nel 1609 per chiunque avesse desiderato leggere ed istruirsi.

Purtroppo non è possibile soffermarsi sui tanti temi che sono affrontati in questo libro. Avviandomi alla conclusione, credo che un terzo tratto distintivo di Milano risieda nella sua natura internazionale, nell’apertura al mondo, al diverso. La città ambrosiana è infatti una metropoli profondamente europea per stili di vita, costumi, economia, cultura. Credo che la naturale disposizione a vivere e operare entrando in stretta relazione con ambienti internazionali vada ricercata – come notò acutamente Giorgio Rumi in un interessante saggio del 1993 (G. Rumi, Milano e l’Europa in AA.VV., Ottocento romantico e civile. Studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves. Milano, Vita e Pensiero 1993, pp.343-350) – nei secoli in cui il Ducato di Milano venne incorporato entro la sfera di governo di poteri pubblici plurinazionali: la monarchia absburgica spagnola dalla metà del XVI secolo al 1706, i domini degli Asburgo di Vienna dal 1706 al 1796. In questi vasti imperi, composti da territori con tradizioni giuridico amministrative assai diverse, i milanesi riuscirono per secoli a tutelare i loro interessi economici e politici grazie alla distanza che li separava dai centri di potere entro il cui dominio pure si trovavano. Persa l’indipendenza politica nel 1499, il Ducato di Milano ebbe riconosciute dai Francesi , dagli Asburgo di Spagna e per buona parte del Settecento anche dagli Asburgo di Vienna le sue storiche autonomie giuridico-amministrative risalenti al periodo visconteo-sforzesco. I milanesi dovettero però accettare la sovranità di monarchi le cui corti si trovavano oltralpe, assai distanti dall’Italia cisalpina. Eppure non sembra azzardato ritenere che la natura internazionale di Milano – già presente nell’Età antica e nel Medioevo – si sia rafforzata ancor più in questo periodo, quando i milanesi furono obbligati a confrontarsi con burocrazie europee (spagnola prima, austriaca poi) in un dialogo costruttivo con i sovrani absburgici: questo permise loro di intervenire negli organi consiliari (a Madrid come a Vienna), che garantivano la rappresentanza dei diversi territori al centro della monarchia. Di qui un’apertura costante al diverso e un’attitudine a confrontarsi con politiche pubbliche che superavano la sfera regionale, poste com’erano in una dimensione internazionale.

Riapertura dei Navigli: Sala apre il débat public

All’incontro tenuto oggi nella Sala Alessi di Palazzo Marino il sindaco Giuseppe Sala e l’assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open Data Lorenzo Lipparini hanno presentato il progetto di riapertura dei navigli milanesi, dando il via a una pubblica discussione sul modello del debat public francese: da oggi fino a settembre i cittadini potranno intervenire esprimendosi sul progetto con critiche, proposte, miglioramenti. Nei prossimi giorni saranno previsti sul tema incontri pubblici organizzati da un garante imparziale, il dottor Andrea Pillon.

Il calendario degli incontri è accessibile su un sito internet attivato dal Comune, ove i cittadini potranno iscriversi, intervenire ai dibattiti e caricare sulla piattaforma informatica documenti contenenti le loro proposte.

La necessità di coinvolgere la cittadinanza è dovuta all’effettiva complessità della riapertura nel suo insieme. Difatti la realizzazione di un canale lungo 7,7 chilometri in una parte della periferia nord (via Melchiorre Gioia) e in una zona importante del centro, determinerà l’avvio di lavori pubblici che recheranno disagi alla mobilità veicolare nella fase transitoria. D’altra parte occorre rilevare che l’utilizzo degli stessi cantieri della M4 in centro e l’apertura di pochi altri siti in periferia, consentirà di limitare il più possibile gli ostacoli alla mobilità.

Il piano prevede due fasi. La prima, che avrà inizio nei prossimi anni, prevede la posa di una tubazione sotterranea di 2 metri di diametro che garantirà la continuità idraulica lungo i 7,7 km del tracciato fino alla Darsena di Porta Ticinese: oltre a migliorare l’irrigazione dei campi nel parco agricolo Sud Milano, tale tubazione costituirà una infrastruttura per le nuove pompe di calore che sostituiranno le caldaie inquinanti . La riapertura viene così a sposarsi con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento cittadino provocato dagli scarichi dei condomini. La tubazione fornirà inoltre l’acqua pulita della Martesana ai cinque tratti di naviglio che verranno aperti in questa prima fase, rendendo possibile in prospettiva il secondo step della riapertura integrale.  I cinque tratti di canale che verranno riaperti nella prima fase sono i seguenti:

Il Naviglio riaperto in via Francesco Sforza: immagine elaborata da MM.

1)     820 metri in via Melchiorre Gioia da Cassina de’ Pomm a via Carissimi;

2)     240 metri nel primo tratto di via san Marco ove si trova l’antico tracciato del Naviglio con la storica Conca dell’Incoronata ricordata da Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico.

3)     520 metri in via Francesco Sforza tra corso di Porta Vittoria e Corso di Porta Romana, in un’area ove si trovano l’Università degli Studi di Milano, il Giardino della Guastalla e l’Ospedale Policlinico.

4)     300 metri in via Molino delle Armi nel parco delle Basiliche tra le chiese San Lorenzo e Sant’Eustorgio;

5)     260 metri tra la Darsena e via Ronzoni mediante la ricostruzione e riattivazione della storica conca di Viarenna.

La seconda fase (entro 2030) riguarderà invece la riapertura totale dei restanti 5 km di canale in via Melchiorre Gioia, in via San Marco, via Fatebenefratelli, via Senato, via San Damiano, via Visconti di Modrone, via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi, via De Amicis e via Conca del Naviglio.

Come ha ricordato il sindaco Sala, gli incontri pubblici hanno l’obiettivo di mostrare ai cittadini i pro e i contro della riapertura. Oltre ai lavori pubblici, verranno illustrati i costi dell’operazione e le modifiche che la realizzazione dei canali navigabili in centro determinerà nella viabilità se il progetto dovesse essere realizzato.

Sala ha tuttavia precisato che la gradualità delle operazioni (articolate in due fasi) permetterà di gestire la situazione senza eccessivi intralci per i cittadini. Inoltre le periferie non saranno penalizzate, ma al contrario valorizzate: ad esempio la riapertura della Martesana in via Melchiorre Gioia consentirà di superare la problematica realtà di quel quartiere (oggi invivibile) grazie a una infrastruttura ove acqua, verde e spazi per nuovi esercizi commerciali giocheranno un ruolo importante nel migliorare la vivibilità della zona.

Il Naviglio in via San Marco. Immagine elaborata da MM.

“La riapertura dei navigli non è operazione nostalgica ma costituisce il riconoscimento del ruolo centrale che l’acqua ha sempre avuto nella storia di Milano” ha affermato il sindaco Sala, aggiungendo che le grandi città del mondo stanno investendo nelle reti di canali. “L’acqua è un elemento che, accanto al verde, la gente apprezza notevolmente come insegna il caso di Chicago”. D’altra parte, basta guardare ai casi di città quali Amsterdam, San Pietroburgo, Amburgo, Parigi, Londra, Vienna e Berlino per rendersene conto.

C’è però una seconda ragione che spiega l’importanza della riapertura dei navigli per Milano. La riattivazione dei canali in centro e in periferia si sposa bene con la politica ambientale che la città intende perseguire nei prossimi anni riducendo la distanza che, sul piano della qualità della vita, la separa ancora dalle metropoli più avanzate. “Tra dodici anni” – ha detto il sindaco – “Milano passerà da 51 macchine ogni 100 abitanti a 40 macchine come avviene nelle maggiori città europee”. La mobilità dei cittadini cambierà radicalmente: l’uso dell’automobile privata si ridurrà a vantaggio di un’ampia disponibilità di mezzi pubblici. La riapertura dei Navigli si inserisce coerentemente in tale visione ambientale: la M4 sarà aperta lungo la cerchia dei canali favorendo gli spostamenti veloci per ragioni di lavoro. Inoltre, la metropolitana estesa fino a Monza consentirà una forte riduzione del traffico automobilistico da Nord-Est. Il divieto dell’ingresso in città dei Diesel Euro 1,2,3, a partire dalla fine di gennaio 2019, ridurrà ulteriormente il numero di auto in città, come sta avvenendo nelle altre metropoli europee.

Perché la Lombardia Sì merita più autonomia

Mancano ormai poche ore all’apertura dei seggi per il referendum sull’autonomia della Lombardia.

Chi ha letto i miei articoli sul Monitore sa che mi sono battuto in passato per una riforma della Costituzione in senso autenticamente federale. Purtroppo la Costituzione italiana non è una Costituzione federale. Tuttavia  la riforma della Carta avvenuta nel 2001 (approvata dagli italiani con referendum) ha attribuito maggiori autonomie alle Regioni e prevede addirittura una procedura che consente di accrescere ulteriormente i loro poteri mediante un’intesa con il governo centrale approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta: è una via che porterebbe a un regionalismo differenziato assai vicino al federalismo, una via pensata per quelle Regioni – come Lombardia, Veneto e tante altre con conti in ordine e servizi efficienti – che si sentissero pronte per esercitare  nuove funzioni con le relative risorse. E’ quanto prescrive l’articolo 116, terzo comma della Costituzione.

Maroni e Zaia, i due governatori di Lombardia e Veneto che hanno organizzato i referendum nelle rispettive Regioni, chiedono il consenso dei cittadini a trattare con Roma migliori condizioni di autonomia. Molti, soprattutto nel centrosinistra, hanno criticato la decisione di spendere risorse pubbliche per i referendum:  sostengono che i due governatori avrebbero potuto trattare direttamente con il governo centrale come sta facendo in questi mesi il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. In realtà, occorre rilevare che l’Emilia – gestita da un’amministrazione di centrosinistra – ha deciso di trattare con il governo (di centrosinistra) solo dopo che Maroni e Zaia avevano annunciato la decisione di indire i referendum per l’autonomia. Se i due governatori lombardo veneti non si fossero mossi in tal senso, è difficile pensare che l’Emilia si sarebbe spinta fino a chiedere ulteriori poteri al governo centrale. In secondo luogo, Maroni e Zaia hanno organizzato i referendum nel pieno rispetto di  un’ordinanza della Corte costituzionale, che nel 2001 ha stabilito che nel caso di “scelte fondamentali di livello costituzionale” tra Regione e Stato, sia del tutto legittimo ricorrere a una consultazione referendaria. L’attribuzione di ulteriori poteri a una Regione ex articolo 116, terzo comma, è certamente una scelta fondamentale di livello costituzionale perché renderebbe Lombardia e Veneto due Regioni “speciali” con poteri e attribuzioni vicini a quelli del Trentino o del Friuli Venezia Giulia. In attesa di una riforma costituzionale in senso autenticamente federale, credo che la via ex art.116 terzo comma, sia lo strumento migliore per garantire maggiore autonomia al Lombardo Veneto. Per questo motivo andrò a votare e voterò Sì al referendum.

Roberto_Maroni-Festival_dell'Economia_2
Il Governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni

Non mi aspetto certamente che le cose cambino tutto d’un tratto. E’ difficile che il governo centrale, da sempre condizionato dagli interessi corporativi della burocrazia romana, sia disposto a sedersi a un tavolo per attribuire realmente più poteri e risorse alle due Regioni. Un’alta affluenza alle urne e una vittoria imponente dei Sì suonerebbero tuttavia come un campanello d’allarme per la classe politica romana, rendendola consapevole che una riforma costituzionale non potrà prescindere in futuro da un assetto rigorosamente federale dei pubblici poteri. Ricordo che nella riforma costituzionale del centrosinistra bocciata dagli italiani il 4 dicembre 2016, il federalismo era assente e si era deciso addirittura di limitare i poteri delle Regioni. Ecco, non foss’altro che per riportare al centro la questione delle autonomie, val la pena recarsi al seggio e votare Sì.

La Lombardia e il Veneto hanno saputo assicurare ai cittadini servizi pubblici di qualità. Certo, casi di malversazione e di corruzione si sono verificati anche al Nord. C’è ancora molto da fare per migliorare in molti settori. Eppure, se paragoniamo questi servizi con quelli di altri territori in Italia, le due Regioni si pongono in vetta alla classifica.

Inoltre mi sembra legittimo che una Regione come la Lombardia – la cui cultura di autogoverno e autoamministrazione risale in molti casi ai secoli della dominazione asburgica – possa disporre di maggiori risorse ed estendere le proprie competenze esclusive in settori quali la giustizia di pace, la tutela ambientale, la tutela della cultura, la gestione dell’istruzione, l’agricoltura, l’ordinamento comunale e tanti altri. Che senso ha che a Roma vengano gestiti servizi che la Regione può assicurare meglio e a un costo minore? Lo stesso vale per il Veneto.

Secondo i sostenitori del No – presenti soprattutto in una parte del centro-sinistra – l’attribuzione alla Lombardia di ulteriori competenze, oggi gestite in tutto o in parte dallo Stato centrale, porterebbe a una retrocessione dell’Italia in campo europeo. Un’Italia in cui Lombardia e Veneto avessero all’incirca le stesse competenze del Trentino Alto Adige – dicono – finirebbe per essere uno Stato diviso, frammentato, privo di spina dorsale. In secondo luogo, ritengono che l’idea di una Lombardia autonoma, “fai da te”, sia anacronistica, legata a un periodo storico – gli anni Novanta – definitivamente passato.

Sono due tesi che mi trovano in disaccordo. Quanto alla seconda, basta guardare a quanto sta accadendo in Catalogna. Siamo proprio sicuri che le piccole patrie siano al tramonto? O non stiamo forse entrando in un’epoca in cui i bisogni dei cittadini si fanno sempre più complessi e richiedono apparati pubblici snelli, i cui servizi siano maggiormente soggetti al controllo della comunità locale? Certo, c’è una grande differenza tra la Catalogna e il Lombardo Veneto. La prima ha indetto un referendum sull’indipendenza violando la Costituzione spagnola. In Lombardia e Veneto si terranno al contrario due referendum sull’attribuzione di maggiori autonomie nel pieno rispetto della Costituzione.

La prima argomentazione rivela invece la mancanza di cultura federale in molta parte della classe dirigente e della classe politica di questo Paese. Il modello di riferimento resta quello giacobino dello Stato unitario, di un’Italia ancora pensata come un corpo vivente i cui organi – le Regioni – possono svolgere le loro funzioni purché stiano accucciati sotto il potere centrale, subordinati ai supremi interessi di una Nazione rappresentata come un blocco immutabile. Riferirsi all’Italia – come fanno i detrattori del referendum lombardo – con espressioni quali “spina dorsale” per indicare la necessità di un Paese forte, potente, capace di decidere contro ogni presunta divisione rappresentata dalle autonomie speciali, è segno di una visione nazionalista che sacrifica ogni diversità sull’altare di un’artificiosa unità.

Settant’anni di Repubblica unitaria non hanno ridotto le diseguaglianze tra Nord e Sud; le hanno accresciute. Colpevole dei mali italiani non è quindi il federalismo, che in Italia non è mai esistito. I nostri difetti risiedono piuttosto nella struttura rigidamente burocratica dei pubblici poteri, nella cultura formalistica di uno Stato le cui leggi sono lunghe, oscure e cavillose; in un’amministrazione statale farraginosa, lenta e costosa, ingabbiata in un formalismo normativo che lascia in secondo piano l’attenzione al risultato, al fine da raggiungere. Occorre al contrario che lo Stato centrale si ritiri da alcuni servizi pubblici, lasciando alle Regioni virtuose i poteri e le risorse per esercitare quelle funzioni con maggiore efficienza nell’interesse dei cittadini.

Guardiamo all’estero, ai Paesi governati da una Costituzione federale. In Germania il federalismo non ha affatto indebolito l’unità dei tedeschi. Un bavarese o un cittadino del Baden si sentono diversi da un berlinese, come quest’ultimo da un cittadino della Sassonia: tutti e quattro sono coscienti di avere tradizioni, stili di vita, istituzioni politico amministrative differenti; nelle loro Regioni (i Länder) risiede una parte significativa dell’amministrazione pubblica e la stessa legislazione sugli enti locali è di competenza regionale. Eppure tutti questi cittadini si riconoscono nelle istituzioni federali del loro Paese, si sentono tedeschi. L’Italia presenta da sempre un policentrismo, un particolarismo territoriale che è per certi versi assai simile a quello tedesco. A me sembra che il federalismo costruito a partire dalle Regioni – alcune delle quali unite in Macroregioni – possa avvicinare i cittadini alle istituzioni della Repubblica. E’ così che l’Unità si costruisce dal basso, dalle Comunità territoriali in cui i cittadini si riconoscono. L’Unità artificiosa costruita dall’alto ha finito per converso con l’allontanare i cittadini dalle istituzioni. I dati sull’affluenza alle urne sono lì a ricordarcelo.

Non basta. Più autonomia significa che maggiori fondi verrebbero trasferiti dallo Stato in Lombardia come avviene oggi in Trentino: risorse che la Regione potrà investire in tanti settori a sostegno dell’economia locale. Questo, com’è facile immaginare, consentirebbe di incrementare ulteriormente il ruolo di Milano, ma anche di potenziare lo sviluppo della Lombardia accrescendo il suo ruolo di locomotiva del Paese a beneficio di tutta l’Italia. La piccola patria lombarda, libera di agire in modo responsabile senza dipendere dai vincoli burocratici dello Stato centrale, potrebbe essere un esempio di buona amministrazione in tanti campi che oggi sono inspiegabilmente sottratti alla competenza delle Regioni. Più risorse quindi, maggiori funzioni, più responsabilità perché la Lombardia le merita. La prossima sfida sarà riportare il tema delle autonomie al centro delle riforme costituzionali perché il federalismo è gestione, tutela e salvaguardia delle diversità in un ordinamento in cui le istituzioni territoriali sono in concorrenza tra loro.

 

Riapertura dei Navigli: un’occasione da non perdere

Nello scorso weekend il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è recato a Chicago per partecipare a un convegno sulle “Urban Waterways”. Invitato ad intervenire dal sindaco di Chicago Emanuel Rahm, Sala ha parlato delle grandi opportunità che la riapertura dei Navigli potrebbe portare a Milano nell’incremento del turismo e nel decisivo miglioramento della qualità della vita urbana grazie alla fruizione di più ampi spazi pubblici fatti di verde e di canali.

La riapertura di quasi otto chilometri di naviglio in via Melchiorre Gioia e in centro città, garantendo il collegamento della Martesana con la Darsena di Porta Ticinese, renderebbe possibile la realizzazione di un grande progetto di navigazione turistica su scala milanese, regionale e perfino europea: difatti, qualora fosse realizzata tale opera, uno svizzero di Locarno, un italiano che vive sul Lago di Como, un turista del Lago Maggiore potrebbero raggiungere il centro di Milano attraversando con un servizio di battelli i Navigli Grande, Pavese e Martesana resi completamente navigabili. Si capisce quindi come la riapertura dei questi otto chilometri di canale, in città e in centro città, sia vitale per la riattivazione dell’intero sistema dei navigli lombardi.

Nyhavn
Nyhavn, antico porto di Copenaghen in centro città

La città ambrosiana potrebbe disporre di un’altra risorsa importante per la promozione turistica del territorio in campo internazionale: Milano sarebbe non solo una città lavorativa che potrà contare su una invidiabile rete di trasporto pubblico (con la M4 sarà possibile raggiungere il centro da Linate in 15 minuti!); con la riapertura dei navigli la metropoli ambrosiana sarebbe  attraente sotto il profilo della vivibilità e dell’ambiente: la rete dei canali, riattivata da Pavia fino ai Laghi, consentirà di competere ad armi pari con metropoli quali Amsterdam, Copenaghen, Amburgo e San Pietroburgo. Assieme ai più ampi spazi di verde pubblico che saranno resi possibili grazie al recupero dei sette scali ferroviari, la disponibilità di una rete di canali navigabili metterà Milano nelle condizioni di essere non solo una metropoli del business, ma anche una città in grado di offrire una elevata qualità di vita urbana come città d’acque e del verde.

Perché questo si avveri tra qualche anno, è tuttavia importante che i milanesi partecipino in massa al referendum che l’amministrazione comunale ha indetto in autunno e votino Sì al progetto di riapertura dei navigli. Il costo del progetto, che era stato stimato inizialmente a 400 milioni di euro, è stato da alcuni esperti ridimensionato a poco più di 200 milioni per il risparmio che ad esempio l’utilizzo dei cantieri della M4 in centro città potrebbe recare all’opera di scavo e di apertura del nuovo canale. Il Sindaco Beppe Sala, che è uomo concreto e tutt’altro che sprovveduto, intende disporre però di una stima il più possibile attendibile dei costi. A tal fine ha formato una squadra di esperti che si esprimerà nei prossimi mesi consentendogli di porre i milanesi dinanzi a un progetto preciso ove saranno indicati i costi veri e propri e i mezzi per farvi fronte. La riapertura dei navigli, com’era prevedibile, ha diviso la città in favorevoli e contrari.

Piazza Vetra con il Naviglio
Come sarebbe il Parco delle Basiliche (dietro San Lorenzo e Sant’Eustorgio) con il Naviglio riaperto

Come Urbanfile ha già evidenziato in un post del 14 marzo scorso, la direttrice del Master turismo in Bocconi, Magda Antonioli, ha sottolineato i benefici della riapertura sotto il profilo del turismo e soprattutto dell’accresciuta valorizzazione di alcune zone periferiche: basti pensare al parco della Biblioteca degli Alberi, a piazza Gae Aulenti e al quartiere City Life in via Melchiorre Gioia; in centro città vi sarebbe invece un’ulteriore attrazione turistica grazie al nuovo canale (la cui larghezza media sarebbe di sette metri) in punti che ancora riflettono la struttura urbanistica dell’antico naviglio: via San Marco in zona Brera; piazza Cavour-via Senato vicino al viale alberato di via Marina a due passi dai giardini pubblici di via Palestro e dal parco della Villa Reale; via Francesco Sforza vicino al parco della Guastalla e dietro all’Università Statale; via Molino delle Armi lungo il parco delle Basiliche tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio; via Conca del Naviglio e via De Amicis a pochi metri dal parco dell’Anfiteatro romano.

Non sono mancati però i critici. Luca Beltrami Gadola, in un post del 15 marzo pubblicato sul sito Arcipelago Milano, ha ironizzato sul balletto di cifre in merito ai costi della riapertura. Inoltre, ha fatto osservare che le spese per la manutenzione dei canali sarebbero assai alte, come già è dimostrato – a suo giudizio – da quanto è avvenuto per la Darsena di Porta Ticinese.

“Alle proteste dei residenti e dei promotori del restauro della Darsena, spazio pubblico per eccellenza, il Comune pare abbia risposto che bisogna pur cavare qualche soldo per coprire le spese di gestione, pulizia e manutenzione della Darsena stessa spese che sembra assommino a quasi un milione di euro ogni anno. Il bando era con una base di 35.000 euro. Lungo il cammino da trentacinque al milione!”. Beltrami Gadola si chiede quanto costerà la manutenzione dei nuovi canali.

Amsterdam King's Day Boats
Quest’anno la tradizionale festa King’s Day Boats si terrà ad Amsterdam il 27 aprile!

La domanda è fondata. Sarà interessante nei prossimi mesi leggere la relazione della squadra di esperti messa in campo per volontà del Sindaco Sala. Una cosa però è certa: i canali costano come dappertutto. Lo sa bene chi abita ad Amburgo, a Copenaghen, a Venezia.  Della loro manutenzione se ne occupa il Comune mediante l’impiego delle risorse pubbliche ricavate dalle tasse locali. Può anche succedere tuttavia che il servizio sia gestito da un’azienda privata. E’ il caso di Amsterdam, dove gli interventi sulle fogne e sui canali sono gestiti non solo dal Comune mediante una tassa comunale (la gemeentebelasting), ma anche da una società privata, la Waternet, alla quale i cittadini pagano i servizi di pulizia delle acque (zuiveringsheffing), di pulitura dei canali e del mantenimento del livello d’acqua sufficiente alla navigazione. La Waternet garantisce peraltro a 1 milione e 200.000 olandesi l’accesso alla rete di acqua potabile e garantisce una rete di acque pulite nelle città, nei fiumi e nei laghi intervenendo costantemente alla loro manutenzione. I servizi costano e si pagano dunque, com’è ovvio che sia. I benefici però sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno si sognerebbe di recarsi ad Amsterdam, a Copenaghen, a San Pietroburgo, a Venezia senza fare il giro dei canali lungo la città e i suoi dintorni. Milano può ambire a questo? Certamente sì: lo dimostra la sua storia, ove i navigli in centro città e in campagna, sono stati per secoli una infrastruttura fondamentale per l’economia del territorio e possono continuare ad esserlo per l’industria turistica. Non si capisce per quale motivo Milano non possa tornare ad essere il cuore dei Navigli lombardi.

Battelli sul canale di Amsterdam
Gite in pedalò e in battello in un canale di Amsterdam

Ma torniamo al caso di Amsterdam: nei canali sono in via di sperimentazione alcuni battelli-robot che, oltre a provvedere alla pulizia delle acque, fungono da ponti provvisori per il passaggio delle merci e delle persone in occasione di eventi speciali in cui la città è sovraffollata. Una soluzione che si potrebbe applicare anche a Milano in un futuro non troppo lontano: penso alla settimana della moda o del design. Insomma, nulla vieta che questo connubio tra acqua e tecnologia possa essere sperimentato anche da noi per la manutenzione dei canali.

Via Fatebenefratelli
Come potrebbe essere via Fatebenefratelli all’incrocio con via San Marco se venissero riaperti i Navigli

Questo tuttavia potrà avvenire solo se passerà il referendum sulla riapertura dei navigli, fissato in autunno. L’operazione, com’è ovvio, avrà i suoi costi ma consentirà alla città di tornare a disporre di una rete di canali invidiabile, i cui benefici sul piano dell’industria turistica, dell’ambiente e della qualità della vita saranno tali da ripagare ampiamente le risorse impiegate. I Navigli sono il cuore di Milano. Una Milano senza la sua cerchia interna è una Milano senza cuore. Rendiamoci conto di cosa ci giochiamo con il referendum sulla riapertura.

La strana magia delle palme milanesi

In questi giorni l’attenzione dei milanesi sembra essersi focalizzata sulle palme in piazza del Duomo. La cosa è davvero strana perché il tema è letteralmente esploso sui social. L’opinione pubblica è spaccata: i favorevoli – che secondo i sondaggi di Corriere della Sera e Repubblica sarebbero in minoranza – fanno notare che le palme conferiscono alla piazza un’anima esotica e originale.

Lo spazio è stato affittato dal Comune a Starbucks, che ha vinto il bando di sponsorizzazione per i prossimi tre anni. All’azienda americana, che aprirà nel 2018 un megastore nel palazzo delle Poste di piazza Cordusio, si deve la scelta audace del piccolo giardino di palme di fronte alla cattedrale, opera dell’architetto Marco Bay.

Il Sindaco Beppe Sala si mantiene cauto. Lascia trasparire una certa simpatia per l’idea: “certo che Milano osa eh…” scrive sul suo profilo Instagram, ma aspetta di vedere quale sarà la reazione dei milanesi nei prossimi mesi.

Certo, contrariamente a quanto affermano gli oppositori al “progetto palme”, i precedenti storici di questa scelta esistono e sono numerosi. A fine Ottocento la piantumazione di alberi tropicali nelle vie e piazze cittadine era diffusa per quel gusto dei paesi esotici che allora, in piena epoca coloniale, non mancava di affascinare gli europei.

A Bergamo ad esempio le palme erano presenti in via Tasso. Occorre poi ricordare le splendide ville che si affacciavano sui laghi Maggiore e di Como, ove le famiglie della nobiltà e della ricca borghesia industriale lombarda fecero a gara per impreziosire i parchi con specie arboree ricercate e originali.

 Per la piazza del Duomo di Milano possiamo risalire addirittura alla fine dell’Ottocento, quando fecero la loro comparsa alcune palme basse attorno alla statua di Vittorio Emanuele II (vedi la foto in testa a questo articolo). 

Wladimiro, un assiduo e affezionato lettore del mio blog, ha chiesto un mio parere sull’argomento. Non sono un esperto di architettura e neppure di giardini. Devo dire però che a me non dispiacciono le palme. Non è vero che queste piante siano estranee alla storia di Milano, come vanno dicendo i numerosi contestatori.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento le palme iniziarono a fare la loro comparsa nel panorama urbano: non solo arricchirono il verde cittadino, ma conferirono una veste inedita a spazi privati e pubblici. 

Dal momento che la missione del Monitore è di richiamare all’attenzione del pubblico aspetti poco noti della storia milanese, porto due esempi di palme esistenti a Milano tra  la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

Il primo riguarda un giardino privato oggi scomparso. Si tratta del vasto parco della villa Melzi d’Eril che si estendeva tra via Manin e via Moscova fin quasi a confinare con la chiesa di Sant’Angelo dei Minori Osservanti. Una foto scattata alla fine dell’Ottocento mostra uno chalet nel parco in occasione del ricevimento organizzato dalla contessa Josèphine Melzi-Barbò alla presenza del re d’Italia Umberto I.

IMG_4862

Come si può facilmente constatare, davanti allo chalet c’erano diverse palme e piante esotiche. Paolo Mezzanotte e Giacomo Bascapé, nella loro monumentale opera Milano nell’arte e nella storia, ricordavano come il giardino di palazzo Melzi “si offriva generosamente all’ammirazione dell’osservatore…ridente di fiori e di piante ornamentali, esotiche e nostrali”. Nel 1928 questo spazio verde, un vero e proprio parco del tutto rapportabile per estensione ai giardini pubblici di Porta Venezia, venne distrutto. In gran parte dell’area fu costruito il palazzo della Montecatini, opera di Gio Ponti.

IMG_3186Il secondo esempio si lega invece alla Milano dei Navigli. In questa foto vediamo vicino al Naviglio interno, all’altezza dell’incrocio tra via Senato e corso Venezia, uno spazio occupato da una piccola casa ove operavano probabilmente gli addetti alla conca di navigazione. Dietro alla casa, a sinistra, si vede una palma. La fotografia risale ai primi anni del Novecento.    

Riapre il Lirico sulle orme di un illustre passato

Il Comune di Milano ha affidato la gestione del Teatro Lirico alla società olandese Stage enterteinment Srl per un periodo di 12 anni. Il teatro, rimasto chiuso dal 1999, dovrebbe riaprire nei primi mesi del 2018. La società olandese ha messo a punto un nutrito piano di iniziative. La programmazione degli spettacoli sarà affidata a diversi direttori a seconda dei tipi di iniziative messe in campo: Renato Pozzetto si occuperà della parte relativa alla comicità e al cabaret, mentre J-Ax curerà gli eventi di musica leggera per giovani. Gli eventi di musica classica e di musica lirica saranno affidati a Roberto Favaro, vicedirettore di Brera. I concerti Jazz  ad Enrico Intra, mentre Chris Baldock si occuperà degli spettacoli legati alla danza.

Il Teatro Lirico risorgerà quindi a nuova vita dopo quasi vent’anni di chiusura al pubblico. Ci auguriamo che esso saprà restituire al quartiere di via Larga quell’anima culturale che si era venuta definendo nel corso dei secoli in modo del tutto originale.

Difatti, se ci soffermassimo su questo tema inforcando le lenti della storia, rimarremmo colpiti nel constatare che l’isolato compreso tra via Larga e via Rastrelli ebbe un ruolo di assoluto rilievo nella società milanese tra antico regime ed età moderna. Le istituzioni culturali e ricreative che vi operarono nel corso dei secoli diedero al quartiere tre anime: una prima di tipo educativo-formativo, una seconda di tipo melodrammatico operistico di livello quasi paragonabile al Teatro alla Scala, una terza infine legata a un sfera più circoscritta nei contenuti, spesso bando di prova per realizzazioni sceniche destinate in alcuni casi a far discutere, in altri ad incidere in profondità nel panorama culturale italiano.

Qui però occorre chiarirsi subito perché l’edificio che vediamo oggi non corrisponde a quello antico del Teatro della Cannobiana. A ben vedere, neppure via Rastrelli, che costeggia un lato dell’edificio, corrisponde a quella di un tempo: questa strada, che oggi collega via Larga con Piazza Diaz, aveva inizio anticamente da un piccolo incrocio con via Cappellari, a pochi metri dall’antica piazza del Duomo medievale che era assai più piccola dell’attuale. Da quell’incrocio era possibile avere una veduta assai suggestiva della cattedrale. Via Rastrelli costeggiava quindi il Palazzo Ducale – divenuto in epoca napoleonica il Palazzo Reale – e terminava all’incrocio tra le attuali vie Pecorari a sinistra e Paolo da Cannobio a destra, che in antico regime corrispondevano all’incirca alla contrada delle Ore e alla contrada del Pesce. Fu in una casa situata in fondo a questa via, in contrada delle Ore, che furono trasferite nella seconda metà del Cinquecento le Scuole Cannobiane.

Proposta seicentesca di riassetto delle Scuole Cannobiane

L’umanista Paolo da Cannobio (1513-1556) con testamento del 1553 (e codicillo del 1554) aveva assegnato all’Ospedale Maggiore un cospicuo lascito per la costruzione di due scuole di etica e di logica. Aperte nel 1557 in piazza Sant’Ambrogio, furono traslocate nel 1564 in via delle Ore. Quindici anni dopo, l’Ospedale Maggiore decise di installare in quello spazio anche le scuole – fondate da Tommaso Piatti nel 1503 – che si trovavano in via Soncino Merati (via oggi scomparsa, copriva all’incirca il primo tratto dell’attuale corso Matteotti, collegando via San Pietro all’Orto con via San Paolo nel sestiere di Porta Orientale). La gestione in capo alla Cà Granda durò fino al 1671, quando le spese dell’istituto, superando le rendite del lascito Cannobio, impedirono ai membri dell’amministrazione ospedaliera di proseguire nell’attività educativa. La gestione delle Scuole Cannobiane passò al Collegio dei Nobili dottori che finanziò la ricostruzione dell’edificio, ampliato fino ad incorporare una proprietà confinante con via Larga. Alle scuole si accedeva da un piccolo passaggio all’inizio di via delle Ore, passaggio che permetteva agli scolari di accedere alla sala principale, sormontata da una cupola a forma ottagonale-tonda. Le scuole continuarono a svolgere le loro funzioni fino alla fine degli anni Sessanta del Settecento quando il governo asburgico, messo a punto il piano di studi del 1769-70, decise di incorporarle nelle Scuole Palatine di Piazza dei Mercanti. Poco dopo, in seguito alla soppressione dei Gesuiti nel 1773, le scuole secolari milanesi furono concentrate nel Palazzo di Brera che, per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, divenne il nuovo “campus” milanese gestito dallo Stato, con finanziamenti adeguati all’alta formazione culturale e scientifica. L’edificio delle Scuole Cannobiane, adibito a magazzino, era destinato a scomparire nel periodo napoleonico, quando gli isolati compresi tra quella parte di via delle Ore (oggi via Pecorari) e via Larga , furono demoliti per costruire l’ala meridionale del Palazzo Reale secondo i disegni dell’architetto Tazzini.

Veniamo alla seconda vita del quartiere. Agli ultimi anni del riformismo teresiano risale la fondazione del Teatro della Cannobiana e della via omonima che fu costruita in prosecuzione di via Rastrelli verso via Larga. Il teatro, costruito negli stessi anni del Teatro alla Scala, era più piccolo rispetto a quest’ultimo. L’edificio presentava tuttavia dimensioni notevoli nel panorama dei teatri cittadini. Nelle intenzioni delle autorità asburgiche, la Cannobiana avrebbe dovuto rivestire un ruolo importante nella vita culturale cittadina. Non a caso esso fu conosciuto dai milanesi come “picciol Teatro”, mentre il “Teatro grande” era ovviamente quello della Scala. I due teatri furono pensati entrambi quali poli d’eccellenza della vita culturale e artistica. Giuseppe Piermarini fu scelto per dirigere la costruzione di entrambi gli edifici. Inoltre, non diversamente da quanto era avvenuto nel giorno di apertura del Teatro alla Scala nell’agosto 1778, anche per l’inaugurazione del Teatro della Cannobiana, avvenuta nel luglio 1779, fu scelta un’opera di Antonio Salieri, La Fiera di Venezia su libretto di Boccherini. Quanto a dimensioni, se la Scala poteva contenere 3600 spettatori, la Cannobiana ne ospitava 2300. La platea era composta da 14 file di sedie (in tutto 450).

Il Teatro alla Cannobiana (o Canobbiana) da “I Teatri di Milano”, particolare da L. Cherbuin dis. ed inc., prima metà XIX secolo

Nei primi anni di attività, la Cannobiana rivestì quindi un’importanza quasi pari a quella del Teatro alla Scala nell’allestimento degli spettacoli. D’altra parte, quanto al pubblico, essa fu frequentata non solo dalla ricca borghesia ma anche dalle più importanti famiglie del patriziato milanese. Avveniva spesso che i nobili disponessero di due palchi: uno al Grande Teatro, l’altro al Picciol Teatro. Del tutto indicativo, in proposito, il caso dei Visconti Ajmi che ho preso in esame nel mio libro Via Filodrammatici prima di Mediobanca (Milano, Scalpendi Editore 2015): questo casato risultava proprietario a fine ‘700 del palchetto N.17 in terza fila alla sinistra nel Teatro alla Scala e del palchetto n.1 in terza fila alla destra nel Teatro della Cannobiana. Nel periodo rivoluzionario, il “Picciol Teatro” divenne un punto di ritrovo per i patrioti lombardi. Vi si tennero tragedie di Alfieri e di Salfi che inneggiavano alla virtù repubblicana. Nel 1798 i patrioti cisalpini lo scelsero per rogare solennemente (presente il notaio Zamperini) l’atto di sovranità del popolo, verosimilmente in opposizione alle ingerenze francesi che avvenivano in quei mesi negli affari di politica interna della Repubblica Cisalpina. Sotto il Regno d’Italia napoleonico e il Regno Lombardo Veneto austriaco, la Cannobiana ritornò al suo antico splendore. Varrà la pena ricordare a tal proposito che Gaetano Donizetti scrisse le scene dell’Elisir d’amore affinché fossero tenute in questo teatro, il che avvenne nella “prima” del 12 maggio 1832. Il calendario era diviso in due stagioni: nel carnevale venivano allestite le commedie, mentre in estate le opere in musica e i balli.

Come avveniva alla Scala, anche qui gli spettacoli non erano certo l’unica attività del teatro: il gioco d’azzardo nei ridotti, la preparazione di piatti e pietanze che potessero soddisfare il palato degli avventori, finivano con il distrarre il pubblico dalla rappresentazione dell’opera. Celebri le lamentele di Berlioz in occasione di una serata trascorsa alla Cannobiana, ove i pasti rumorosi a base di costolette e minestroni lo avevano distratto per il rumore delle stoviglie.

Restaurato nel 1844, il “picciol Teatro” declinò in modo irreversibile nella seconda metà dell’Ottocento, quando passò in gestione dallo Stato al Comune di Milano. La progressiva carenza di fondi segnò la fine di quella stagione memorabile che era iniziata assieme al Teatro alla Scala. L’introduzione dell’illuminazione elettrica non aiutò a risollevare una situazione che restava precaria; parve al contrario portare sfortuna: il prefetto Basile, richiamandosi all’incendio del Ring-Theater di Vienna avvenuto l’8 dicembre 1881 che aveva causato numerosi morti, ebbe buon gioco nel decretare la chiusura della Cannobiana alcuni anni dopo. Nel 1889, a pochi mesi dalla cessazione dell’attività, il poeta Ferdinando Fontana scrisse questi versi malinconici in dialetto milanese:

In via Larga sul canton

Che va dent in del volton

Gh’è ona veggia carampana

Che se ciamma Cannobiana,

Ma che l’è de quj veggett

Fa d’on stamp tanto perfett

Che conserva l’allegria

Anca a vess in agonia…

 

Interno del Teatro Lirico dopo i lavori di ristrutturazione compiuti da Antonio Cassi Ramelli nel 1938.

La seconda vita dell’isolato tra via Larga e via Rastrelli si era chiusa definitivamente ma un’altra se ne aprì in breve tempo. L’editore Sonzogno, le cui pubblicazioni erano in concorrenza con quelle della casa editrice Ricordi, acquistò dal Comune l’edificio ormai in rovina: la sua idea era di formare un nuovo polo teatrale che potesse favorire la sua attività di editore in campo musicale come i Ricordi avevano saputo fare rispondendo abilmente alle richieste di compositori, maestri e impresari del Teatro alla Scala. L’immobile fu ristrutturato in via radicale su disegno dell’architetto Sfondrini. Il 24 settembre 1894 l’edificio fu aperto al pubblico come nuovo Teatro Lirico Internazionale.

Benito Mussolini al Teatro Lirico il 16 dicembre 1944

Diversamente dal Teatro alla Scala, che rimase il tempio dell’opera, il Lirico non raggiunse i livelli di eccellenza cui mirava Sonzogno. Esso si segnalò tuttavia per l’originalità degli spettacoli e assurse ben presto a una certa fama nel panorama della vita artistica milanese. Tra le prime più importanti, si ricordano la Fedora di Umberto Giordano tenuta nel 1898 che lanciò la carriera del celebre tenore Enrico Caruso, nonché La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio (1904). Un’altra serata memorabile fu quella che si svolse al Lirico il 15 febbraio 1910, quando i Futuristi presentarono al pubblico il loro celebre Manifesto destinato a suscitare scalpore nella società del tempo. L’interno fu devastato da due incendi: un primo nel 1938, un secondo nel 1943. Nonostante tali incidenti, il teatro, ricostruito e ampliato dall’architetto Cassi Ramelli (1905-1980), seppe svolgere una certa attività anche sotto il regime fascista e perfino in tempo di guerra: il 16 dicembre 1944 Mussolini scelse il Lirico per tenere il suo ultimo discorso ai milanesi.

Veniamo infine agli anni del Dopoguerra e del boom economico, durante i quali il Lirico svolse un ruolo importante quale centro culturale milanese, anche se non tornò certamente ai fasti dei primi anni del secolo. Wanda Osiris vi tenne i suoi spettacoli eccentrici e piumati. Verso la metà degli anni Sessanta il Lirico presentava al pubblico un calendario di spettacoli del tutto avvicinabili a quelli del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Negli anni di piombo, in una Milano immersa nel dramma del terrorismo e della contestazione, suscitò grande impressione la presentazione al Lirico in prima mondiale, il 4 aprile 1975, dello spettacolo Al gran sole carico d’amore, opera di Luigi Nono con la regia di Jurij Ljubimov: vi furono rappresentate le grandi rivoluzioni operaie – dalla Comune parigina alle rivolte nell’Italia del 1943 – alle quali si aggiungeva un richiamo alla guerra in Vietnam.