I Corpi Santi: porto franco di Milano

I Corpi Santi di Milano sono un antico comune, oggi scomparso, poco conosciuto ai milanesi. Annessi a Milano nel 1873, presentavano una conformazione a dir poco originale. Il territorio confinante con la città circondava i bastioni spagnoli come un grande anello. Verso la campagna i Corpi Santi si estendevano in alcuni punti per svariati chilometri, in altri si riducevano a una ristretta fascia di territorio.

Ma cosa vuol dire il termine “Corpi Santi” e quando furono costituiti in Comune? L’origine è incerta. Alcuni ritengono che il termine rinviasse all’uso di seppellire i primi martiri cristiani fuori dalle mura cittadine, altri si richiamano ad antiche processioni religiose che si svolgevano intorno alla città.

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Milano con il territorio dei Corpi Santi annessi nel 1873

Nei secoli del Medioevo e dell’Età Moderna il territorio era soggetto a Milano. Difatti i Corpi Santi traevano la denominazione dalla Porta su cui gravitavano. I Corpi Santi di Porta Orientale, partendo dalla zona Buenos Aires, si spingevano verso la campagna fino a comprendere la cascina Monlué (oggi a pochi metri dalla tangenziale est) e la cascina delle Rottole (primo tratto di via Palmanova all’incrocio con via Tolmezzo). Nei Corpi Santi di Porta Romana, che comprendevano Porta Vigentina, era incluso quello che oggi è Corso Lodi fin quasi a Corvetto; fuori Porta Vigentina la loro estensione si riduceva a meno di due chilometri dalle mura di Milano, confinando con il Vigentino pressappoco all’incrocio di via Ripamonti con la Vettabbia, tra via Serio e via Rutilia. I Corpi Santi di Porta Ticinese (con Porta Lodovica) si estendevano nel contado per più di sette chilometri: oltre alla Darsena di Porta Ticinese – punto di arrivo delle barche provenienti da Pavia, dal Lago Maggiore, dal naviglio interno di Milano – comprendevano Ronchetto delle Rane (zona via dei Missaglia) e, lungo il naviglio grande, San Cristoforo, arrivando quasi alle porte di Corsico. I Corpi Santi di Porta Vercellina si espandevano a macchia d’olio lungo Corso Vercelli, la zona Fiera, San Siro. I Corpi Santi di Porta Comasina gravitavano sui quartieri di via Bramante e Paolo Sarpi: includevano il territorio dove oggi si trova il Cimitero Monumentale, il Borgo degli Ortolani (oggi via Luigi Canonica) e, verso Nord, i quartieri Ghisolfa, Bovisa e Fontana fino a confinare con il comune di Niguarda. I Corpi Santi di Porta Nuova erano limitati sostanzialmente alla zona tra piazza della Repubblica e la Stazione Centrale.

L’unione dei sei Corpi Santi in un solo comune venne realizzata dall’imperatore Giuseppe II di Asburgo-Lorena con dispaccio del 21 maggio 1781.

Il territorio era costituito in gran parte da campi e ortaglie. Alla fine del Settecento i maggiori proprietari erano gli enti religiosi milanesi e i nobili che abitavano in città: l’abbazia di San Vittore al Corpo nel sestiere di Porta Vercellina, il Venerando Luogo Pio di Santa Corona in piazza San Sepolcro vicino alla Biblioteca Ambrosiana; il marchese Pompeo Litta Visconti Arese, il cui fastoso palazzo in corso Magenta – una parte dell’edificio è oggi sede del Teatro Litta – era il simbolo della sua immensa ricchezza; il marchese Egidio Orsini di Roma, anche lui abitante in una stupenda dimora in via Borgonuovo, oggi sede di rappresentanza della ditta Armani (via Borgonuovo 11).

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo

Nel corso dell’Ottocento la popolazione del suburbio si accrebbe a un ritmo nettamente superiore rispetto alla città: dai 16.000 abitanti stimati nei primi anni Ottanta del XVIII secolo, si passò nel corso dell’Ottocento ai 28.635 abitanti (dati  del 1834) per oltrepassare ampiamente i 45.000 cittadini negli anni a cavallo dell’Unità italiana (1859-61). All’aumento della popolazione seguì un incremento delle attività industriali. Difatti i Corpi Santi erano divenuti – come scriveva Carlo Cattaneo – il “porto franco” della città: luogo privilegiato per il commercio e per l’industria ove l’attività imprenditoriale era favorita dall’assenza dei dazi su alcune merci importanti. Presso i caselli di ciascuna delle sei porte cittadine si trovavano le pese pubbliche ove i funzionari dello Stato stabilivano il dazio da applicare sui prodotti che entravano in città. Per questo motivo, il costo della vita in quello che è oggi il centro di Milano (zona 1) era più alto rispetto al suburbio. Una difformità che Cattaneo così descriveva in una bella lettera alla rivista “Il Diritto” risalente al 4 settembre 1863:

Valse alla popolazione suburbana il solo e semplice fatto d’essere rimasta fuori dalla cerchia daziaria; cioè d’aver avuto in sorte, oltre al contatto d’una capitale, un grado di agevolezza nei viveri e di libero traffico che Milano non aveva. Il suburbio era il porto franco della città. Era congiunto alla libera campagna come un porto franco è congiunto al libero mare.

Nel territorio dei Corpi Santi si erano stabilite molte industrie, che avevano approfittato di una politica fiscale favorevole fin dal 1817. Quando Cattaneo scriveva al “Diritto”, le imprese erano numerose: ricordiamo ad esempio le Officine Meccaniche di Girolamo Miani (specializzate nella produzione di carrozze, vagoni e locomotive) che occupavano l’area situata ad ovest dell’Esselunga di via Ripamonti, tra via Pompeo Leoni e via Carlo Bezzi; lungo il naviglio grande, vicino a San Cristoforo, c’era la Società per la fabbricazione delle porcellane lombarde fondata nel 1833 dal nobile Luigi Tinelli, acquistata nove anni più tardi dal piemontese (di origine svizzera) Giulio Richard; le cartiere di Ambrogio Binda si trovavano lungo il naviglio pavese, nei pressi della Conca Fallata.

La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande
La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande

Perché si verificava questa diversità di condizioni tra la città e i Corpi Santi? Vediamo di vederci chiaro. Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la legge prevedeva due generi di dazi: quelli governativi e quelli applicati dagli enti comunali come sovraimposte. V’era però una differenza tra i comuni murati e i comuni aperti. A Milano, città murata, i dazi erano applicati alle merci che entravano e uscivano dalle sei porte cittadine: colpivano gli alimenti (pane, olio…), combustibili (cera, gas per l’illuminazione…), foraggi, materiali da costruzione (legnami, gesso, pietre, mattoni, marmi) e altri articoli (vernici, sughero, cristalli). Al dazio governativo, il cui gettito andava allo Stato, il Comune di Milano applicava sovraimposte che variavano dal 43% su vino al 30% sui buoi e sulla carne macellata. Perché la fiscalità vigente nei Corpi Santi era migliore? Per due motivi. Diversamente dalle città murate, i Corpi Santi erano anzitutto un comune aperto: qui le tasse erano riscosse solo alla vendita al minuto, colpivano gli articoli venduti. Questo spiega per quale motivo il Comune fosse divenuto in breve tempo un grande deposito di merci. A Milano si tassava invece ogni tipo di prodotti in entrata, anche quelli che non sarebbero stati venduti. In secondo luogo, le sovraimposte dei Corpi Santi erano largamente inferiori rispetto a quelle di Milano e in alcuni settori, come ad esempio i combustibili o i materiali da costruzione, la tassazione non esisteva. Si trattava di condizioni, come si può facilmente intuire, nettamente favorevoli alla cultura d’impresa.

Pianta di Milano del 1884.
Pianta di Milano del 1884.

Dopo l’Unità il Comune di Milano volle inglobare i Corpi Santi. I milanesi sostenevano che i corposantini godevano di un vantaggio ingiusto perché usufruivano di beni e servizi cittadini pagati con la loro fiscalità. D’altra parte molti edifici che servivano alla città, ma anche la sede di molte aziende cittadine, si trovava nei Corpi Santi, pochi metri fuori dalle mura: la vecchia Stazione Centrale in piazza della Repubblica, la Stazione della Società Anonima degli Omnibus fuori Porta Orientale, in uno stabilimento tra le vie Spallanzani, Sirtori e Melzo; il Cimitero Monumentale fuori Porta Garibaldi; il gasometro, che regolava la fornitura di gas ai milanesi, fuori porta Ludovica. L’assorbimento del Comune anulare era sentito come un atto doveroso per una città in rapida espansione.

Gli industriali erano però preoccupati di perdere i vantaggi del “porto franco”. L’annessione a Milano fu però inevitabile: venne realizzata con regio decreto l’8 giugno 1873.

Il Tredesin de Marz e una pietra misteriosa

Ieri si è festeggiato il Tredesin de Marz, tradizionale festa dei fiori milanese che sembra quasi propiziare l’avvento della primavera. La festa sarà ripetuta domani, domenica 15, nel quartiere in zona Porta Romana, tra via Crema, via Piacenza e via Giulio Romano: si terrà un mercato di fiori con tante iniziative legate al mondo della floricultura.

Da cosa trae origine questa festa? Come cercherò di spiegarvi in questo articolo, l’evento si lega probabilmente ad antichi culti pagani che vennero cristianizzati nel corso del Medioevo.

Nell’Ottocento e ancora nella prima metà del secolo scorso il Tredesin si festeggiava a non molta distanza dalla zona che ho ricordato. La festa aveva il suo fulcro nella chiesa di Santa Maria al Paradiso e interessava il corso di Porta Vigentina fino all’incrocio con via Beatrice d’Este. Emilio De Marchi (1851-1901) ricordava: “E qui giornad del tredesin de Marz? Gh’era la fera, longa longhera, giò fina al dazi, coi banchitt de vioeur, de girani, col primm roeus…”.

Se entrate in Santa Maria al Paradiso troverete sul pavimento un’enorme pietra circolare ove al centro si trova un foro; vi sono incisi tredici segni. Quale significato abbiano è un mistero.

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La misteriosa pietra nella chiesa di Santa Maria del Paradiso

Partiamo da un dato certo: questa pietra, risalente all’epoca romana (se non addirittura pre-romana), si trovava anticamente in un’altra chiesa, oggi scomparsa: San Dionigi. Era situata nell’area dei giardini pubblici di Porta Venezia, quasi a ridosso delle mura spagnole: difatti la festa del Tredesin veniva celebrata nei pressi di quella basilica prima di “traslocare”, alla fine del XVIII secolo, nel sestiere di Porta Romana. La prima costruzione di San Dionigi vien fatta risalire all’epoca di Sant’Ambrogio, alla fine del IV secolo dopo Cristo, nel periodo in cui Milano fu capitale dell’Impero romano. Com’è facile immaginare, non esistevano a quei tempi né giardini pubblici né mura spagnole. La zona era circondata da campi perché le mura della Milano romana, relativamente al settore orientale, non oltrepassavano il tracciato delle attuali vie Durini, piazza San Babila e via Monte Napoleone.

Che senso poteva avere dunque una chiesa in mezzo ai campi, distante un chilometro dalle mura?

Sant'Ambrogio (339/340-397)
Sant’Ambrogio (339/340-397)

Una risposta potrebbe esserci. Quando Ambrogio divenne vescovo di Milano, il cristianesimo era una religione che interessava soprattutto le classi cittadine medio-alte. La conversione dell’imperatore Costantino aveva spinto l’alta burocrazia dell’impero ad abbandonare la fede pagana. Nel IV e V secolo dopo Cristo si era venuta a determinare una situazione paradossale: il cristianesimo, che nei primi secoli aveva conquistato i ceti popolari, nel tardo-impero divenne parte integrante della formazione culturale dell’aristocrazia romana che risiedeva in città. Milano, capitale dell’impero romano d’Occidente dal 286 al 402 d.C., costituiva un esempio lampante. Ambrogio non era forse stato un alto funzionario romano prima di diventare vescovo della città? Si giunse così al paradosso che il paganesimo, sconfitto nella capitale dell’impero, sopravviveva nelle campagne ove i contadini erano rimasti fedeli ad antiche tradizioni del folclore sorte in epoca pre-romana. Come ha scritto lo storico Jacques Le Goff, il laicato rurale, sprovvisto della formazione culturale cristiana diffusa nelle classi cittadine: “divenne sempre più vulnerabile agli urti di una cultura primitiva rinascente”.

Per evangelizzare le masse rurali Ambrogio fondò alcune chiese fuori dalle mura: la chiesa che venne poi intitolata al suo nome, ma anche San Nazzaro e San Dionigi.

So cosa stai per dirmi adesso: come si lega tutto questo con la pietra circolare??

Si può ipotizzare che la pietra fosse preesistente alla chiesa. Questo spiegherebbe per quale motivo il misterioso manufatto, forato al centro, sul quale sono incisi 13 segni  – forse ad indicare i 13 mesi lunari del calendario celtico? – si trovasse all’interno della chiesa nel sestiere di Porta Orientale.

San Barnaba
San Barnaba, anonimo lombardo, XVIII secolo.

Nel Medioevo le tradizioni pagane continuarono a sussistere nonostante la cristianizzazione dei secoli precedenti. Per contrastarle, a partire dall’XI secolo la chiesa ambrosiana diffuse la storia di San Barnaba, considerato il primo evangelizzatore di Milano. Il  13 marzo del 52 d.C., entrando in città da Porta Orientale, l’apostolo sarebbe passato nei campi e avrebbe piantato la sua prima croce di legno. Sapete dove? Nel foro della misteriosa pietra rotonda ovviamente. Tutto quindi lascia supporre che la chiesa ambrosiana mise in campo una raffinata operazione culturale tesa ad assimilare alla tradizione cristiana un rito preesistente risalente almeno al periodo romano, quando a marzo (il nome deriva da Marte) si festeggiava Marte per l’appunto, dio della Natura, della fecondità, della vegetazione primaverile oltre che della guerra.

La chiesa ambrosiana stabilì che l’apostolo fu il primo evangelizzatore di Milano: al suo passaggio, la neve si sarebbe sciolta per miracolo e i prati fuori porta Orientale si sarebbero riempiti di fiori. Gli storici sono però concordi nel ritenere una leggenda l’origine apostolica della chiesa milanese.

La storia di San Barnaba come “primo vescovo di Milano”, divenuta ben presto popolare, ebbe però l’effetto che la curia milanese si attendeva: contribuì ad elevare il prestigio di Milano, conferendole la dignità di “sede apostolica” quasi allo stesso livello di Roma.

La prima testimonianza di cui disponiamo oggi a proposito della festa del Tredesin è contenuta nel manoscritto trivulziano F35, copiato tra il 1450 e il 1461, negli anni del ducato di Francesco Sforza. Vi era ricordata la festa religiosa durante la quale veniva concessa l’indulgenza di tutti i peccati ai fedeli che si fossero recati a San Dionigi riconoscendo le colpe e facendo atto di pentimento: “Item quilibet bene confessus et contrictus visitans ecclesia infrascripta sancti Dionixi die XIII marti ut indulgentia plenaria omnium suorum peccatorum remissionem”. 

Nel 1583 San Carlo confermò il 13 marzo come dies festibus, giorno di festa.

Domenico Balestrieri
Domenico Balestrieri

Nella seconda metà del Settecento la zona compresa tra corso Venezia, via Senato e via Marina, continuò ad essere il centro della festa del Tredesin fino al 1783, quando le autorità procedettero alla demolizione di San Dionigi. A quell’epoca, in una società che andava secolarizzandosi,  la festa aveva perso in larga parte lo spirito religioso dei secoli precedenti. Il poeta dialettale Domenico Balestrieri (1714-1780) ricordò i milanesi, tutt’altro che pentiti e contriti, in una bella poesia dialettale di cui riporto alcune quartine:

Hoi da dilla? Hoo pavura, che ghe sia/ In cert dì d’Indulgenz, e de fonzion / Chi viva pesg per nostra confusion,/ Che in temp che gh’era anmò l’idolatria.  

L’è inscì pur tropp, e gh’avarev on mucc/ De coss de fatt in proeva del mè assont;/ Ma per sbrigà la predega in d’on pont,/ Gh’è ’l Tredesin, ch’el pò bastà per tucc.

 El dì tredes de marz, come se cred/ Generalment, l’è staa quel santo dì, / Che al temp di Apostel s’è piantaa anca chì / La primma Insegna della vera Fed./ 

Ora in sto dì se ’n celebra la Festa/ A Sant Dionis in fond de Porta Renza,/E gh’è foera el cartell dell’Indulgenz,/ Ma vaan là per tutt olter che per questa. …Signorìa in Gesa o no ghe n’è, o ben scarsa.

 Traduzione:

Devo dirla tutta? Ho paura che in certi giorni d’indulgenze e di messe si viva in un disordine peggiore rispetto ai tempi dell’idolatria. E’ così purtroppo e avrei molti fatti che provano il mio assunto. Ma per accorciare la predica, c’è il Tredesin: credo che possa bastare per tutti.  Il tredici di marzo, come si crede da tutti, è stato quel giorno santo in cui al tempo dell’Apostolo (San Barnaba) si è piantata anche qui a Milano la prima insegna della vera fede. Ora in questo giorno si celebra la festa a San Dionigi in fondo a Porta Renza [Porta Orientale]:  c’è fuori il cartello dell’indulgenza ma le persone vanno là per tutt’altre ragioni…signori in chiesa o non ci sono o sono molto pochi.

Giro del mondo sull’aereo figlio del Sole

Ieri è decollato da Abu Dhabi il primo prototipo di aereo alimentato esclusivamente con l’energia del sole. Al comando del Solar Impulse 2 – le cui ali superano in lunghezza quelle del jumbo jet della Boeing – è lo svizzero Bertrand Piccard, assistito dal collega André Borschberg. Il velivolo farà il giro del mondo passando sopra l’India, la Cina, l’Oceano Pacifico, l’America, l’Oceano Atlantico e l’Europa. Se tutto andrà bene, le ore di volo previste saranno in tutto 500, distribuite nell’arco di cinque mesi.

Qualora Piccard riuscisse nella sua impresa (com’è d’altra parte in tutti i pronostici), ci troveremo dinanzi a una svolta epocale perché le grandi aziende costruttrici di aeroplani – che hanno rifiutato di finanziare il Solar Impulse 2 – saranno costrette a fare marcia indietro. Maggiori risorse saranno investite nella ricerca per la fabbricazione di aerei di linea ad energia solare. I benefici saranno considerevoli, soprattutto nella riduzione dell’inquinamento atmosferico.

Bertrand Piccard
Bertrand Piccard (n.1958)

Il Solar Impulse 2 ha una forma curiosa: la notevole apertura alare e le ruote appese a un lungo carrello sotto la piccola cabina di equipaggio lo rendono simile a un enorme insetto. La superficie dell’aereo è coperta da celle solari ultra leggere prodotte dall’azienda belga Solvay, i cui laboratori di ricerca hanno sede a Bollate, un Comune alle porte di Milano. Queste celle forniscono energia alle batterie al litio con cui sono alimentati i quattro motori elettrici presenti nel prototipo. Il velivolo sta viaggiando a una velocità di 50 Km/h.

Ieri, quando ho visto il video che mostrava il decollo del Solar Impulse 2, il pensiero è corso a Leonardo da Vinci. Nella sua feconda vita di pittore, ingegnere e studioso, Leonardo si sforzò d’inventare un paio di ali meccaniche che consentissero all’uomo di volare. Un sogno che non riuscì a tradursi in realtà per molti secoli, finché l’invenzione dei motori ad elica cambiò la storia. Leonardo fu il primo a capire che uno dei segreti del volo risiedeva nello sfruttamento delle correnti d’aria. Nell’osservare gli uccelli rapaci scrisse in una bella nota risalente ai primi anni del Cinquecento:

Quando l’uciello ha gran larghezza d’alie e pocha choda, e che esso si voglia inalzare, allora esso alzerà forte le alie, e girando riceverà il vento sotto l’alie, il qual vento facendosegli intorno lo spingerà molto con prestezza, come il cortone uccello di rapina chio vidi andando a Fiesole sopra il locho di Barbiga nel [150]5 addì 14 di Marzo.

In fondo, l’impresa di Piccard si pone nel solco di tante avventure compiute in passato da uomini ardimentosi, i quali tentarono la sorte con gli ultimi ritrovati della scienza.

La mongolfiera del conte Andreani
La mongolfiera del conte Andreani mentre prende il volo nei pressi di Moncucco

E’ il caso ad esempio del conte Paolo Andreani (1763-1823), appartenente a una ricca famiglia del patriziato milanese, il cui palazzo a Milano ha dato il nome alla Biblioteca Comunale, la Sormani appunto. Andreani volle ripetere l’impresa dei fratelli Montgolfier: finanziò la costruzione di una grande mongolfiera affidandone la costruzione ai fratelli Agostino, Giuseppe e Carlo Gerli. Si trattava di un globo aerostatico che misurava 72 piedi in altezza e 66 in larghezza. Il conte prese il volo il 13 marzo 1784 prendendo quota dal giardino della sua villa di campagna sita a Moncucco (un paese in provincia di Milano). Il pallone scomparve subito tra le nubi. Dopo mezz’ora il conte venne trovato a tre miglia dal paese facendo tirare un sospiro di sollievo alla popolazione e alle autorità. Non fu un viaggio lungo ma bastò a rendere celebre l’Andreani, che fu invitato a Parigi per incontrare i maggiori studiosi di aeronautica. Ad Andreani si deve peraltro l’invenzione dell’eudiometro, uno strumento in grado di calcolare la quantità di ossigeno presente nell’atmosfera.

Meno fortunata l’impresa del bolognese Francesco Zambeccari (1762-1812). Tra il 1803 e il 1812 questi effettuò alcune  ascensioni con una mongolfiera di sua invenzione. Trovò la morte nel corso di una di queste imprese.

Il canonico Luigi Mantovani, in alcune note del suo diario, ci ha lasciato la curiosa testimonianza di un volo risalente all’ottobre del 1803. Zambeccari si era innalzato con il suo pallone in un luogo imprecisato tra le Romagne e le Marche. Poche ore dopo i membri della spedizione, perso il controllo della mongolfiera per un forte temporale, furono trasportati dalle correnti fin sopra le acque dell’Istria, dove si buttarono in mare colti dal freddo e dalla disperazione. La mongolfiera, priva di equipaggio, continuò imperterrita il suo viaggio. Venne ritrovata in Bosnia alcuni mesi dopo, curiosamente venerata dalle popolazioni locali (cristiane e musulmane) come se fosse una reliquia divina.

Seguiamo nelle note del Mantovani  le notizie frammentarie che erano giunte a Milano. E’ curioso che il canonico non esiti a bocciare la spedizione del conte bolognese, giudicato un pazzo esaltato in cerca di notorietà.

 16 ottobre 1803

Con staffetta espressa venuta da Bologna si dice essersi saputo colà da Pesaro, e con varie lettere del Rubicone, che gli Areonauti (sic!) sei ore dopo la partenza sono andati a cadere nelle acque d’Istria, e che per accidente furono raccolti in una barca. Si aggiunge che erano stati un giorno e mezzo senza parlare, che erano gonfi, e che si dovette loro tagliar gli abiti indosso. Questa notizia non essendo stata portata dal corriere di Venezia non pare verosimile

19 ottobre 1803

Si sono avute ulteriori, e più distinte notizie del Pallone sventurato di Zambeccari. Fortunatamente i tre Aeronauti furon ajutati da una barca in dette acque,e co’ pronti rimedj voglionsi quasi ridotti a buon essere di salute: contano essi di varie cose da loro vedute nell’altissimo giro dell’aria, varie vicende etc. che forse saran frottole, o sogni imaginarj di quella fantasia abitualmente stravolta, senza la quale non sarebbe stata possibile la loro matta determinazione

 21 ottobre 1803

Il Governo sempre sollecito per le utili cognizioni e per le intraprese vantaggiose al ben pubblico, si è fatto premura di render conto alla nostra Città dell’esito del conte Zambeccari che ha volato in Bologna. Dio volesse che si perdesse non solo la razza, ma anche la memoria di simili disperati, che senza aver in vista alcun bene, arrischiano quanto è più prezioso, cioé la vita, per una buffoneria. Il Conte Zambeccari è curato in Venezia dall’assistenza dei’ migliori medici per vedere di recuperarlo ne’ suoi sensi esteriori ch’egli ha perduto, sia pel freddo, sia per lo spavento, assai più degli altri suoi socj. Egli conta di aver sofferto una fiera tempesta con successiva neve, e dippiù esservi trovato in situazion parallela alla luna. Sì l’una che l’altra di queste supposizioni devesi attribuire a fantasia esaltata.

 3 dicembre 1803

 Giunge oggi la notizia della finale caduta del Pallone Zambeccari. Esso è caduto nella Bosnia, non molto lungi dal forte turco Viatrez alla sponda dell’Uria, 14 ore lontano da Gospich. Nel globo si trovarono alcune ruote e catene di ferro e tre capelli. Fu creduto prodigio da’ Turchi e da’ Cristiani, che a vicenda si disputarono il possesso, ed oggi pure il vulgo colà è fisso nell’opinione di cosa miracolosa a segno, che corrono gli malati a prender dell’acqua del ruscello, ove discese il globo, per guarire dai loro malanni

Non resta che augurare buona fortuna a Piccard. Speriamo che un giorno, grazie alla sua impresa, potremo salire su un aereo di linea alimentato con la sola energia solare.

Il maresciallo Trivulzio nella Milano del primo ‘500

Camminando lungo il corso di Porta Romana da piazza Missori, prima di arrivare all’incrocio con via Francesco Sforza, si apre a sinistra la piazzetta di San Nazaro in Brolo. La chiesa omonima, di origine medievale, fu una delle prime basiliche paleocristiane ad essere costruita per volontà di Sant’Ambrogio.

Non voglio annoiarti facendo la storia della chiesa, che puoi trovare in una delle tante guide cittadine. Desidero ricordare la curiosa struttura architettonica. E’ infatti l’unico caso a Milano di una basilica la cui facciata sia interamente coperta da un altro edificio: il Mausoleo Trivulziano.

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San Nazaro in Brolo in corso di Porta Romana. Ingresso nel Mausoleo Trivulzio

Quando entrai per la prima volta in questa cappella, ebbi una sensazione di lugubre solennità. Progettato dall’architetto Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, edificato in parte da Cristoforo Lombardi, il mausoleo risale alla prima metà del XVI secolo. E’ una fabbrica a pianta quadrata che, se non si trovasse nella parte anteriore della chiesa, sembrerebbe una torre anziché un luogo di sepoltura.  D’altra parte il Bramantino, che era stato a Roma tra il 1508 e il 1510, parve richiamare in questo edificio le linee architettoniche dei grandi monumenti della Roma imperiale. All’interno otto nicchie, collocate in posizione elevata, accolgono i sepolcri di alcuni Trivulzio, una famiglia nobile che abitava in un bel palazzo situato in via Rugabella, oggi purtroppo scomparso.

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Il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio

Nella parte del mausoleo che confina con l’ingresso della chiesa spicca il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518), il maggiore esponente del casato. L’iscrizione che ricorda il defunto recita solennemente: “IO. IACOBUS/MAGNUS TRIVULTIUS/ANTONII FILIUS/QUI NUNQUAM/ QUIEVIT QUIESCIT/TACE”; tradotto in italiano significa: “Riposa Gian Giacomo Trivulzio, figlio di Antonio, che mai ebbe pace”.  Una frase concisa, che sembra quasi ammonire il visitatore a non disturbare il sonno eterno di un grande personaggio che visse una vita tormentata.

Chi fu questo nobile milanese? Per saperne di più, ti consiglio una fonte preziosa che è stata pubblicata da pochi mesi dalla Fondazione Trivulzio. L’opera, curata da Marino Viganò, si intitola Le imprese dell’illustrissimo Gian Giacomo Trivulzio il Magno: l’autore è un monaco cistercense di Chiaravalle che visse a fianco del maresciallo nei primi anni del Cinquecento: Arcangelo Madrignano.

So già cosa mi dirai: Gabriele, la solita opera noiosa scritta da un uomo di chiesa con stile ampolloso. Cosa me ne faccio?

IMG_5818Non si tratta di un’opera noiosa per due ragioni. Anzitutto perché scritta da uomo che, benché si chiamasse Arcangelo e facesse parte di un ordine religioso, fu tutt’altro che uno stinco di santo. Il che, se non contribuisce di per sé a renderci l’autore simpatico, lo rende certo meritevole della nostra attenzione. Un uomo, il Madrignano, che non esitò nel corso della sua vita a tradire i confratelli, a cambiare casacca per convenienza politica, a perseguitare altri religiosi pur di conseguire ricche prebende e compiacere i suoi superiori.

In secondo luogo il testo, il cui intento apologetico non inquina la ricostruzione di alcune vicende, contiene proverbi popolari, massime di scienza politica, riflessioni che sono una fonte preziosa per comprendere l’Italia del primo Cinquecento.

L’opera racconta le imprese del condottiero di ventura Gian Giacomo Trivulzio dal 1465 fino al 1494, l’anno della calata in Italia del re di Francia Carlo VIII.  Il testo venne scritto tra il 1503 e il 1509, il periodo di massima fortuna politica del maresciallo.

Bisogna riconoscere che il Trivulzio ebbe pessima fama nella Milano del primo Cinquecento e nella storiografia risorgimentale. Negli anni del suo declino politico, venne accusato di essersi venduto al re di Francia, di aver tradito la dinastia sforzesca. Nell’Ottocento ritornò ancora questa “macchia”: aver tradito Ludovico il Moro, uno dei simboli del Rinascimento italiano.

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Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518)

In realtà, il Trivulzio non può essere considerato un traditore della patria. Il mestiere del condottiero di ventura lo poneva in una condizione che non è equiparabile a quella del soldato odierno. Il condottiero di ventura arruolava il maggior numero possibile di “lance”: squadre di armati ciascuna delle quali era composta mediamente da 5/7 uomini tra i quali un cavaliere vestito con armatura pesante.  Queste lance, reclutate a centinaia, erano impiegate al servizio della repubblica o del principato con cui era stata firmata una lettera di “condotta”: ecco per quale motivo tali uomini erano chiamati “condottieri di ventura”. Oggi appare inconcepibile questo modo di gestire le operazioni militari, ma la guerra del Rinascimento era fatta così. Era una faccenda in larga parte “privata”. Il Trivulzio, come il coetaneo Giovanni dalle Bande Nere o prima di lui Francesco Sforza, furono brillanti condottieri di ventura, pronti a vendere la loro professionalità in campo militare al migliore offerente.

Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495. Museo di Brera
Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495 conservata al Museo di Brera

L’impopolarità del Trivulzio nella Milano del primo ‘500 – impopolarità che segnò la vita tormentata del maresciallo come ci ha ricordato l’iscrizione funeraria in San Nazaro – fu dovuta all’accusa di aver tradito la dinastia sforzesca. Il rifiuto di riconoscere Ludovico Sforza “il Moro” come duca di Milano era considerato da molti coetanei un tradimento feudale. In realtà il maresciallo – che non fu certo il solo nobile lombardo a ‘tradire’ il duca di Milano – si rifiutò di riconoscere l’autorità del “Moro” perché riteneva che questi si fosse impadronito del potere estromettendo il nipote, Gian Galeazzo Maria Sforza, morto in circostanze misteriose nel 1494. E’ molto probabile che il Moro avesse fatto avvelenare quello scomodo parente. Tuttavia bisogna riconoscere che Ludovico Sforza era riuscito in quello stesso anno ad ottenere l’investitura ducale dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, conseguendo in tal modo quel riconoscimento giuridico in campo internazionale che agli Sforza era mancato fin dai tempi in cui erano ascesi al governo dello Stato di Milano.

Molti nobili lombardi – e tra questi il già citato Gian Giacomo Trivulzio – rifiutarono tale investitura. Ritenevano che il re di Francia Luigi XII, discendendo da Valentina Visconti – figlia del primo duca di Milano Gian Galeazzo Visconti e andata in sposa a Luigi duca di Orléans – avesse maggiori diritti nella successione. Per questo motivo giurarono fedeltà a Luigi XII e lo aiutarono a conquistare il ducato nel 1499/1500.

Diversamente dalle opere scritte in quel medesimo torno di tempo da Donato Bossi e da Bernardino Corio per celebrare Ludovico il Moro, il Madrignano ci descrive una Milano preda dell’instabilità, funestata da violenze e da congiure, mostrando un taglio narrativo ostile allo Sforza. Una testimonianza preziosa che aiuta a comprendere meglio il filo delle drammatiche vicende in cui il Trivulzio fu chiamato a vivere.

Expo 2015: lotta alla contraffazione prioritaria

L’imminente apertura di Expo ha rimesso al centro dell’attenzione un tema cruciale nella difesa del Made in Italy: la contraffazione. Sono troppi i prodotti contraffatti, venduti sul mercato a prezzi assai più bassi rispetto agli originali. L’elenco degli articoli interessati è sterminato: dall’olio ai pomodori cinesi venduti come italiani. A produrli sono organizzazioni criminali che spesso hanno sede all’estero. L’Italia purtroppo è uno dei paesi europei più colpiti dal fenomeno.

Confessiamolo: quante volte abbiamo acquistato un prodotto alimentare spinti unicamente dalla sua convenienza, senza controllare la provenienza e le “informazioni nutrizionali”? Il guaio è che questi prodotti, che sembrano fatti apposta per attirare la nostra attenzione, son fatti spesso con sostanze dannose per la salute. Oggi la contraffazione colpisce i più svariati settori del Made in Italy, dall’agroalimentare alla moda. Un fenomeno allarmante se consideriamo che si tratta di un mercato che vale quasi 7 miliardi di euro all’anno.

Il tema è stato al centro dell’interessante convegno organizzato lunedì dal Centro Studi Anticontraffazione presso la Camera di Commercio di Milano alla presenza di un vasto parterre composto da esperti del ramo, rappresentanti del mondo imprenditoriale, membri della guardia di finanza e della polizia di Stato. Ai lavori è intervenuta l’onorevole Susanna Cenni, capogruppo Pd in materia anticontraffazione.

Dai lavori è emerso lo scarso impegno mostrato finora dallo Stato nel disciplinare questa materia. La legge delega 67/2014, cui è seguito da parte del governo uno schema di decreto legislativo risalente al primo novembre scorso, ha compreso la contraffazione all’interno dei reati perseguibili con pene fino a cinque anni per la tenuità dell’offesa. Il principio della non punibilità per la tenuità del fatto rischia di imporsi in via definitiva nella giurisprudenza, mettendo la contraffazione sullo stesso piano di un reato quale ad esempio il maltrattamento di animali. Occorre invece aggravare le pene perché – come ha ricordato Daniela Mainini presidente del Centro Studi Anticontraffazione e grande esperta della materia – “il principio della lieve entità non può far parte dei reati anticontraffazione”.

E’ stato inoltre lamentato il ritardo degli organi legislativi (Parlamento e Governo) nel preparare quella legge speciale su Expo al cui interno le norme anticontraffazione non potranno che rivestire un’importanza cruciale. La questione è prioritaria se si considera che molti paesi (dalla Cina ad alcuni Stati americani) non conoscono una tutela giuridica sull’autenticità dei prodotti paragonabile a quella esistente da noi in relazione ai marchi DOP o DOCG.

L’aumento delle imitazioni del Made in Italy è sotto gli occhi di tutti: ha fatto scuola il caso del falso Grana Padano presentato da un’azienda della Lettonia alla fiera di Parigi. L’Italia è il paese più colpito dalla contraffazione agroalimentare. Questo tuttavia – come ha sottolineato il professor Cesare Galli, uno dei maggiori specialisti nella difesa della proprietà industriale – è dipeso dal fatto che lo Stato ha concentrato finora le sue energie nella disciplina del mercato interno, mettendo in secondo piano la tutela dei nostri prodotti nei mercati internazionali.

Su questi temi è intervenuta anche l’attrice Tiziana Di Masi, che da anni lavora per rendere consapevoli i cittadini sui danni che la contraffazione reca non solo all’economia italiana ma anche alla salute. Lo spettacolo Tutto quello che sto per dirvi è falso, interpretato dall’attrice con grande abilità narrativa, sta riscuotendo un grande successo nei teatri italiani.

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Beccaria e la disoccupazione

La disoccupazione è uno dei temi di maggiore attualità. L’Ocse, nel rapporto economico dedicato all’Italia, ha sostenuto che le riforme strutturali che il governo sta portando avanti  – dalla pubblica amministrazione al lavoro – saranno in grado di creare 340.000 posti di lavoro in cinque anni. Se consideriamo che i disoccupati (stime Istat 2014) sono più di tre milioni con una percentuale che per i giovani tra i 15 e i 24 anni resta superiore al 40%, si ha un’idea delle preoccupanti dimensioni del fenomeno.

Come uscirne? Tornare alla figura di Cesare Beccaria può esserci d’aiuto, in particolar modo al Beccaria funzionario nel governo della Lombardia austriaca tra il 1771 e il 1794. Può sembrare strano ma anche l’illuminista lombardo dovette fare i conti con il problema della disoccupazione. Diamoci un’occhiata.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Negli anni Ottanta del Settecento il fenomeno interessava soprattutto il comasco, un territorio ove operavano molti setifici che esportavano i prodotti nelle fiere del Levante. La seconda guerra russo-turca, scoppiata nel 1787 e protrattasi fino al 1792, aveva provocato tuttavia una notevole instabilità nei commerci internazionali. Questo segnò un calo considerevole delle vendite di sete lavorate nei mercati tedeschi che erano in rapporti con l’Oriente. Ne risultò a Como una eccessiva produzione di manufatti che il mercato non fu in grado di assorbire. I proprietari dei setifici, di fronte al calo della domanda, furono costretti a limitare la produzione e a licenziare molti operai.

Nel 1787, quando Beccaria si recò a Como per rendersi conto della situazione, i disoccupati erano divenuti alcune migliaia, una numero rilevante se si tiene presente che la città di Como e la pianura circostante contavano nel 1785 sui 42.000 abitanti (esclusi i paesi di montagna o sull’alto lago).  Molti disoccupati, rimasti senza fonti di sostentamento, finirono per ingrossare le fila dei delinquenti commettendo tumulti e furti nelle campagne. La situazione era grave. Il governo si trovava di fronte a un problema di ordine pubblico, ma era evidente che per risolverlo occorreva affrontare in modo adeguato la causa che stava più a monte: la disoccupazione.

Beccaria convocò le autorità del luogo: l’intendente politico di Como, che corrispondeva all’incirca al prefetto di oggi; il vescovo della città; il prefetto e la congregazione municipale, oggi diremmo il sindaco e la giunta comunale. Per risolvere il problema furono avanzate tre proposte, che Beccaria sottopose al governo austriaco migliorandole in alcuni punti. Vorrei qui accennarti le due che mi sembrano più importanti.

La prima riteneva opportuno procurare un lavoro “di badile” a quei disoccupati che erano stati mediocri lavoratori. Si trattava di giovani che, soffrendo la fame, erano disposti a tutto. Si pensò quindi di impiegarli in opere di bonifica. Gli abitanti di Borgo Vico (oggi Como) – un paese situato nella parte nord occidentale del lago – vivevano in un ambiente insalubre; il terreno Pasqué, reso paludoso dai periodici inondamenti del lago e dalle esondazioni del torrente Cosia, provocava l’insorgere di febbri malariche che colpivano periodicamente gli abitanti del paese; un istituto religioso, il Luogo Pio dei Catecumeni, pagava 10.000 lire all’Ospedale Maggiore perché i malati fossero trasportati e curati a Milano. La proposta consisteva nell’abbassare la foce del Cosia: gli operai avrebbero trasportato la ghiaia dal torrente al prato affinché cessassero le inondazioni che lo rendevano paludoso. Per il finanziamento dei lavori si sarebbe fatto ricorso al fondo di 10.000 lire destinato originariamente all’Ospedale Maggiore. Beccaria approvava questa proposta perché riteneva che la bonifica del territorio avrebbe finito per ridurre il numero dei malati da portare all’ospedale. Lo Stato, cui spettava l’amministrazione del Luogo Pio in seguito alla riforma del 1784, avrebbe quindi risparmiato risorse nel lungo periodo.

La seconda proposta era tesa invece a procurare un impiego agli ex lavoratori della seta che avevano mostrato una certa abilità. Si trattava soprattutto delle donne. Si proponeva di insegnar loro l’arte del linificio attivando scuole provvisorie in alcuni ex conventi. Il comune di Como chiese allo Stato un prestito di 16.000 lire che avrebbe rimborsato in due anni: in tal modo sarebbe stato in grado di istituire le scuole, pagare gli insegnanti, procurare il fuoco e il lino per il lavoro. Beccaria apportò alcuni miglioramenti a questa proposta: convinse il governo ad elevare il prestito portandolo a 20.000 lire da rimborsare in tre anni anziché due.

Cosa ci insegna questa storia? Nel caso degli operai impiegati nelle opere di bonifica possiamo ricavare due lezioni: a) che le opere pubbliche utili alla collettività sono un mezzo valido per risolvere la disoccupazione in circostanze eccezionali. Keynes lo dimostrò nel saggio The Means of Prosperity pubblicato nel 1933; b) che anziché alzare le tasse o ridurre i servizi, lo Stato dovrebbe impiegare meglio il denaro pubblico per finanziare interventi davvero utili alla collettività.

Le scuole provvisorie per apprendere l’arte del linificio possono essere considerate le antenate dei corsi di formazione per disoccupati organizzati al giorno d’oggi.

Perché riaprire il naviglio in centro città

Il naviglio interno è un po’ come i  fiumi carsici: si nascondono per chilometri sottoterra per riaffiorare nuovamente alla luce. Il canale, interrato nel 1929 durante il fascismo, scomparve per decenni dalla memoria dei milanesi. Per gran parte del Novecento di esso non rimase più traccia. Continuò a vivere nei ricordi dei vecchi, dei cultori di storia milanese e di qualche poeta. Chi l’avrebbe detto che sarebbe tornato a calcare le scene da protagonista? Da un decennio rivive nella mente dei milanesi. Oggi si discute addirittura di una sua parziale riapertura nelle vie del centro. Non si tratta di un’illusione come qualcuno ha scritto. Il progetto della riapertura del naviglio è un fatto concreto: elaborato dal Politecnico di Milano da gente seria e competente, è stato sottoposto alla giunta comunale per una stima dei costi e della sua fattibilità. Prevede la parziale riapertura del canale, le cui acque tornerebbero a scorrere lungo le vie Melchiorre Gioia, San Marco, Fatebenefratelli, Senato, Visconti di Modrone, Francesco Sforza, Santa Sofia, Molino delle Armi, De Amicis, via Conca del Naviglio fino alla Darsena di Porta Ticinese. Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi libri sull’argomento: ad esempio il bel volume di Empio Malara, Il Naviglio di Milano, (Hoepli, Milano 2008) ma anche quel gioiello di storia milanese che è il vecchio libro di Giacomo Carlo Bascapé, Il Naviglio di Milano ripubblicato dal Polifilo l’anno scorso.

Perché oggi si parla di riaprire il naviglio? Torniamo a quel 1929, quando il podestà Giuseppe Capitani d’Arzago ne decise la chiusura. Milano andava mutando radicalmente la sua fisionomia urbana. La città nuova, che i fascisti vollero lanciata verso il progresso dell’economia industriale, uscì trasformata dell’opera del piccone. Molte vie del centro furono oggetto di interventi radicali, che alterarono in molti punti l’originario impianto medievale. Pensiamo ad esempio a piazza Diaz, costruita mediante la demolizione dell’antico quartiere del Bottonuto; al superbo edificio della Stazione Centrale, al palazzo dell’Inps in piazza Missori: facciate che mostrano ancora oggi quale fosse la politica di quegli anni, tutta informata all’esaltazione della razza fascista.

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Adriano Celentano in una foto degli anni Sessanta.

La città del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta ereditò in gran parte lo spirito di quella fascista: una metropoli forte, orgogliosa, in marcia verso il progresso. Nel dopoguerra fu tutto un costruire palazzi ove un tempo esistevano piccole chiese e vecchie cascine. Nel 1965 Adriano Celentano scriveva Il ragazzo della via Gluck pensando con nostalgia alla Milano circondata dai campi che andava sparendo sotto i colpi della speculazione edilizia. Come diceva Adriano? “Quella casa in mezzo al verde…dove sarà???”.  S’innalzarono i primi grattacieli. I disastri e le miserie della guerra erano scomparsi. Arrivarono gli anni di gomma, delle prime automobili e motorini di massa: nella Milano del boom le porte erano aperte a chiunque aveva voglia d’intraprendere. Una città lanciata verso l’innovazione, tutta votata al culto del progresso.

In quella Milano il naviglio interno non poteva aver spazio. Chi aveva tempo per capirne il significato? Quale utilità poteva rivestire in una città ansiosa di costruire? Il naviglio interno era il testimone scomodo di una Milano scomparsa. Le sue acque maleodoranti a due passi dalla Madonnina, quelle su cui erano transitati i barconi carichi di merci e di passeggeri facevano parte di un passato da dimenticare. Un passato scomodo perché ricordava ai milanesi quali erano state le sofferenze e i sacrifici dei loro antenati; alcuni morti suicidi nei gorghi del naviglio che, come scriveva Manzoni in un epigramma, “gibigianando va“.

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Gita in barca sulla Martesana da Canonica a Trezzo in una cartolina del 1918

Nella vecchia Milano dei navigli lo sviluppo economico era stato lento ma progressivo. Era una città fatta di povertà e di tante miserie quotidiane: una Milano umile, percorsa da uno spirito di comunità in cui i nobili e i borghesi non vivevano su un altro mondo ma aiutavano i poveri, gli anziani, i malati, i meno fortunati impegnandosi assiduamente negli enti assistenziali e caritativi. Tutta un’altra realtà rispetto alla Milano del Novecento, sede dell’industria e del terziario, tutta immersa nel culto del lavoro per il lavoro, di un arricchimento che ha fatto perdere di vista lo spirito di umiltà e il culto delle tradizioni ambrosiane.

Eppure, per uno di quegli strani paradossi che ci riserva il divenire storico, lo spirito della Milano novecentesca sta svanendo, lasciando spazio a una mentalità diversa, più a misura d’uomo. La crisi economica ha costretto i milanesi a ripensare se stessi e il loro modo di vivere, anzi di sopravvivere ai colpi della recessione.  Può stupire ma nella città di oggi si respira un’atmosfera più vicina alla piccola Milano di Manzoni e di Stendhal. Una Milano fatta di assistenza, di attenzione verso l’altro, di carità, di impegno concreto a sostegno degli ultimi.

Ieri, mentre passavo per una via non molto lontano dal centro, a pochi passi da Porta Romana, ho visto un giovane che pedalava su una strana bicicletta: la parte anteriore era costituita da una pedana su cui erano sistemati, legati assieme, alcuni pacchi e scatole di varia larghezza. Quindici anni fa vedevo anonimi furgoncini attraversare veloci la strada. Oggi vedo biciclette che trasportano merci.  Forse sbaglierò ma credo che questi anni duri stiano cambiando la mentalità e gli stessi modi di vivere dei milanesi.

Ecco per quale motivo, nella nuova Milano che sta nascendo sulle rovine di quella novecentesca, la riapertura del naviglio interno potrebbe essere un’occasione unica: sarebbe il segno che la vera anima di Milano non è quella cinica, indifferente ed egoista del cumenda cui siamo stati abituati da certa vulgata nazionale, ma quella bonaria, altruista, laboriosa; quella – per intenderci – che, molti secoli fa, realizzò i navigli. La riapertura del canale in centro non consentirebbe soltanto di riattivare a fini turistici il collegamento delle acque della Martesana con quelle del Naviglio Grande. Ridonerebbe a Milano la sua identità originaria di città a misura d’uomo: città di lavoro ma anche città in cui condividere gli spazi in un ambiente vivibile, pittoresco, ricco di verde.

Rilanciare la manifattura per far decollare l’Italia

Come può l’Italia tornare a crescere in questo 2015? Nell’interessante convegno organizzato ieri dal Centro Studi Grande Milano presso il Palazzo dei Giureconsulti di via Mercanti è emersa la convinzione che il Paese può ripartire puntando sul manifatturiero.

Ford Electric Car Plant Builds Electric Focus And Hybrid VehiclesSpesso sentiamo dire che l’Italia potrà riprendersi agendo a sostegno della cultura o del turismo. Vero. Ma pensiamoci bene: cosa rende il nostro Paese una delle economie più avanzate al mondo nonostante la crisi? Un ruolo importante è rivestito dalle piccole e medie imprese del manifatturiero, che in questo settore fanno ancora guadagnare all’Italia il secondo posto nella classifica europea dopo la Germania. Tale patrimonio imprenditoriale non può essere disperso, deve essere posto nelle condizioni di crescere. Oggi la manifattura costituisce nel complesso il 15% del Pil.  Gli imprenditori italiani, presenti in gran numero alla convention, hanno sostenuto l’esigenza di portare il manifatturiero al 20% del Pil. Un compito assai difficile. Sappiamo infatti che le condizioni per fare impresa in Italia sono oggi difficili. Il livello di tassazione resta eccessivamente elevato. Come uscirne? Interessanti le relazioni presentate al convegno presieduto da Daniela Mainini.

I relatori hanno sostenuto che il rilancio del manifatturiero sarà possibile solo quando gli imprenditori saranno messi nelle condizioni di riportare in Italia le fabbriche che hanno delocalizzato all’estero, nei paesi dell’Europa dell’Est o in Cina. La necessità di riportare le fabbriche in Italia è dovuta al fatto che oggi i costi del lavoro e della logistica stanno salendo progressivamente in quei paesi. Riportare in patria gli stabilimenti, oltre a creare nuovi posti di lavoro, può assicurare un rapporto diretto con i centri di ricerca dell’azienda e fare in modo che la produzione sia soggetta a un controllo di qualità più stringente ed efficace di quanto oggi non sia possibile all’estero.

D’altra parte, in questi ultimi anni il ritorno delle fabbriche in patria (re-shoring) è già avvenuto negli Stati Uniti con effetti positivi per l’economia. Prima la situazione era diversa: tra il 1998 e il 2012 gli imprenditori americani delocalizzarono la produzione industriale con un’intensità pari al 4% del Pil, il che finì per provocare la perdita di quasi sei milioni di posti di lavoro. Negli ultimi anni il re-shoring ha consentito invece agli imprenditori di riportare in patria gli stabilimenti grazie alla politica industriale dell’amministrazione Obama. Questo, insieme a politiche non austere, ha permesso agli Stati Uniti non solo di reagire alla crisi, ma di tornare a crescere a ritmi impensabili fino a pochi anni fa.

In Italia occorre seguire quell’esempio, ma questo può avvenire se gli imprenditori e il governo faranno ciascuno la loro parte.

Claudio Gemme,  presidente del Comitato Strategico del Centro Studi Grande Milano, presidente di Anie
Claudio Gemme, presidente del Comitato Strategico del Centro Studi Grande Milano, presidente di ANIE

Claudio Gemme, presidente della Federazione Nazionale Imprese Elettrotecniche ed Elettroniche (ANIE), rappresenta 1.250 imprese per un totale di 400.000 addetti, pari al 20% del comparto manifatturiero. Nel suo intervento ha sottolineato come la metà del fatturato di queste aziende sia realizzato all’estero. Il caso di Fincantieri, che produce manufatti nel settore navale, è impressionante: la produzione è indirizzata prevalentemente all’estero ma il 70% della componentistica viene comprato fuori dai confini nazionali.

Si capisce allora come sia importante, per rilanciare l’occupazione in questo Paese, riportare l’intera filiera di produzione in Italia. Questo sarà possibile quando le condizioni per fare impresa torneranno ad essere favorevoli. Qui il governo deve fare la sua parte. Oltre a ridurre la pressione fiscale sulle imprese, è necessario detassare gli utili reinvestiti nella ricerca e nell’innovazione.

Anche gli imprenditori devono fare la loro parte, il che è tanto più importante se si tiene presente che il progresso tecnologico nel campo della comunicazione via internet ha reso immediato il rapporto tra imprenditori e clienti. Lo ha rilevato Alberto Caprari, presidente delle Associazioni Nazionali dell’Industria Meccanica Varia ed Affini dove si contano 1.000 aziende per un totale di 200.000 addetti. Il modello di gestione dell’impresa – ha sottolineato Caprari – è cambiato radicalmente negli ultimi anni riflettendo il rapido progresso nelle comunicazioni: rispetto a pochi anni fa, un imprenditore segue con difficoltà il lancio di un prodotto perché i clienti, attivi in rete, cambiano di continuo nel bene e nel male.

Filippo Taddei, responsabile nazionale Dipartimento Economia e Lavoro del PD
Filippo Taddei, Responsabile Nazionale Dipartimento Economia e Lavoro del PD

Cosa hanno risposto i politici? Di particolare interesse è stato l’intervento del responsabile economico del Partito Democratico, Filippo Taddei.  Taddei, molto vicino a Matteo Renzi, ha messo in evidenza i due obiettivi che stanno informando l’azione del governo nella politica industriale: a) l’abbassamento della tassazione sul lavoro e sulle imprese per una percentuale pari al 2% del Pil affinché l’imposizione fiscale torni ad essere ai livelli dei maggiori paesi europei; b) investire nel lavoro stabile perché le imprese che crescono sono quelle ove i dipendenti dispongono di un nutrito bagaglio di competenze formatosi nel tempo. L’azione del governo sarà diretta a premiare le piccole e medie imprese che assumeranno sulla base del nuovo contratto di lavoro introdotto dalla riforma Poletti.

L’attualità di Cesare Beccaria professore di economia pubblica

Nel 2014, in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione Dei delitti e delle pene, sono usciti due volumi su Cesare Beccaria. Il primo (Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari) fa parte della monumentale Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria pubblicata da Mediobanca. E’ il terzo volume in cui sono pubblicati tutti i contributi dell’illuminista lombardo in tema economico.

Il secondo libro, L’arte della ricchezza pubblicato da Mondadori, è scritto dal senatore Carlo Scognamiglio Pasini. E’ presa in esame la figura dell’illuminista milanese nel breve periodo in cui fu professore di economia pubblica (1769-1771) presso le Scuole Palatine di Milano e negli anni in cui ricoprì l’ufficio di funzionario nel governo dello Stato di Milano al servizio dei sovrani austriaci (1771-1794).

Le Scuole Palatine di Milano in unin
Le Scuole Palatine di Milano in piazza Mercanti in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. Avevano sede nell’edificio centrale e al piano superiore di quello a destra.

Questi autori non sono i primi ad essersi occupati in modo approfondito del Beccaria economista. Desidero ricordare ad esempio il bel volume Riformatori lombardi, piemontesi e toscani curato da Franco Venturi nel 1958 nella serie Illuministi italiani pubblicata dalla casa editrice Ricciardi.

Sette anni fa, assieme a mio padre, io stesso ho curato un saggio sul Beccaria docente di economia pubblica. Si tratta del volume Cesare Beccaria visto da Fulvio e Gabriele Coltorti (Luiss University Press, Roma 2007). Nella parte affidata alla mia penna, dopo aver tracciato un profilo biografico, ho preso in esame l’insegnamento di Beccaria mettendo in relazione il contenuto delle sue lezioni con i concreti obiettivi di politica economica fissati a quel tempo dalle monarchie germaniche. Occorre ricordare infatti che lo Stato di Milano, nella seconda metà del Settecento, faceva parte dei territori sottoposti al dominio degli Asburgo di Vienna.

Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels
Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels (1732-1817)

L’imperatrice Maria Teresa, quando nel 1768 nominò Beccaria alla cattedra di economia pubblica – cattedra inizialmente definita “scienze camerali” – si attendeva che il filosofo milanese impostasse il lavoro seguendo l’esempio del cameralista Joseph von Sonnenfels, attivo in quegli stessi anni all’Università di Vienna. Cosa insegnavano i cameralisti? Insegnavano – e suggerivano ai sovrani come fidati consiglieri – i provvedimenti più efficaci per arricchire lo Stato, rafforzarne la potenza, assicurare il benessere e la felicità dei sudditi. I cameralisti seguivano insomma l’impostazione dottrinaria dei mercantilisti, i quali nel secolo precedente avevano raccomandato un deciso intervento dello Stato nell’economia.  La differenza era che i primi avevano capito che le ricette economiche non contano nulla se non vengono realizzate da uno Stato retto su un’amministrazione efficiente. Questo spiega per quale motivo i cameralisti del Settecento insegnavano non solo la Scienza del commercio (Handlungswissenschaft o Oekonomische Wissenchaft), ma anche la Scienza delle finanze o camerale (Kameralwissenschaft) e la Scienza della polizia (Polizeiwissenschaft), quest’ultima intesa nel senso ampio di amministrazione pubblica.

Beccaria non seguì del tutto l’impostazione germanica: nei pochi anni in cui fu professore di scienze camerali limitò il suo corso all’economia pubblica senza toccare la parte relativa alla polizia e alle finanze, che era tipica invece della cameralistica. Eppure, nonostante queste mancanze – dovute probabilmente alla decisione di lasciare l’insegnamento – la sua teoria economica riveste un’assoluta originalità, mostrandosi per certi versi superiore a quella del coevo Adam Smith.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Oggi, quando sentiamo parlare di Beccaria, ci viene spontaneo pensare al trattatello Dei delitti e delle pene che fu decisivo nella riforma della legislazione penale negli Stati europei del XVIII e XIX secolo (compreso l’impero russo di Caterina II). Beccaria fu non solo questo. Anzi, fu assai più di questo. Il Beccaria genuino è il professore di scienze camerali che spiegava agli studenti i fondamenti dell’economia pubblica. Anche in veste di pubblico funzionario al servizio dello Stato di Milano austriaco diede negli ultimi anni della sua vita un contributo importante…ma questa sarà materia per un altro intervento.

Chiediamoci ora se il pensiero economico di Beccaria sia attuale. Come si poneva l’illuminista lombardo dinanzi al tema, tuttora scottante, dell’intervento dello Stato nell’economia di un Paese? Beccaria seguiva una via di mezzo che lo distanziava sia dai cameralisti che dai teorici del laissez faire.  Sosteneva che il governo poteva intervenire solo per rimuovere gli ostacoli al libero commercio e al fare impresa.

In merito agli aiuti di Stato, Beccaria direbbe ad esempio che i fondi pubblici a sostegno delle imprese sono inutili e dannosi per due ragioni: a) perché privilegiano inevitabilmente alcuni a danno di altri; b) perché l’industriale tenderebbe a vivere di fondi pubblici come un parassita e non se ne servirebbe per migliorare l’impresa. Se il capitale pubblico prestato all’imprenditore ha tempi lunghi di rimborso, questi cercherà di sfruttarlo per sé “contentandosi” – sono parole di Beccaria a proposito delle manifatture – “di esibire un’apparenza di travaglio più per conservarsi il diritto di prolungare la restituzione o di chiedere nuovi soccorsi”. Una lezione che la nostra classe politica democristiana dimostrò di ignorare se pensiamo alla politica fallimentare della Cassa del Mezzogiorno.

Beccaria auspicava una politica economica oculata. Lo Stato deve agire per premiare – così diceva nelle sue lezioni – “l’attività già fatta”: punto decisivo perché non si aiuta l’imprenditore a fare qualcosa che non ha fatto, ma lo si aiuta premiando l’impresa che ha conseguito eccellenti risultati nella libera competizione del mercato. “Il premio è di un solo” – ci dice Beccaria – “ma l’emulazione è di molti: la speranza, che è uno dei più grandi agenti dell’uomo socievole, mette in fermento l’interesse privato di ciascheduno”.

In concreto, per Beccaria un Paese può arricchirsi solo se il governo promuove il commercio con quattro misure:

  1. Stimolando la massima concorrenza venditori/compratori. E’ la concorrenza il vero motore del progresso: è l’“universale concorrenza che aumenta il moto e l’azione … rendendo ogni cosa prontamente correspettiva rappresentatrice d’ogni altra, anima l’industria e la speranza di ogni membro della Società”;
  2. Impiegando meno manodopera possibile e velocizzando la produzione: “Ogni opera nel minor tempo possibile e dalle più poche mani che si può venga fatta;
  3. Migliorando le infrastrutture e i trasporti per rendere più veloce il commercio all’interno di una nazione;
  4. Garantendo bassi interessi del danaro per stimolare i prestiti. Vedeva con favore un aumento della circolazione monetaria.

La strana cucina nella Milano ‘ancien régime’

L’Italia è famosa per i suoi piatti prelibati. Oggi però non voglio darti consigli sui ristoranti che fanno tendenza a Milano. Se vuoi sapere quali sono i locali in cui si mangia bene, ti consiglio di iscriverti alla mia newsletter.  Puoi trovare informazioni utili al riguardo.

In questo articolo desidero affrontare un tema afferente alla storia dell’alimentazione. Come si mangiava a Milano nel Medioevo o nel Sei-Settecento? Partiamo dalla nostra cucina: oggi si tende a separare i sapori sia nei singoli piatti che nelle portate dei pasti. Per noi un piatto deve essere dolce o salato. Questa usanza si affermò in Francia tra Sei e Settecento e si diffuse in Occidente nel XIX secolo. Nel Medioevo invece si tendeva a mischiare i sapori. I cibi erano cucinati in un miscuglio artificiale che faceva sentire nel palato un gusto completamente diverso rispetto al nostro. Perché si mischiava il dolce con il salato, il dolce con il piccante? Secondo i costumi di quei tempi, si riteneva opportuno che le pietanze contenessero il maggior numero di sapori per essere adeguatamente nutrizionali. Il gusto per l’agrodolce, ottenuto mediante l’immissione dello zucchero negli agrumi, era tipico del Medioevo.

Oggi in Europa son rimaste le tracce di quella concezione culinaria. Lo riscontriamo nella cucina dell’Europa del Nord o in alcuni paesi dell’Europa dell’Est: se ordiniamo un piatto di carne o di pesce, ci accorgiamo che viene guarnito con confetture di mirtilli o marmellate di pere. Questo tipo di cucina medievale durò molto tempo a Milano. In alcune zone del Nord Italia esso è tuttora diffuso: si pensi ad esempio in Lombardia all’uso di accompagnare le carni con la mostarda. In origine la mostarda era una salsa in cui il piccante delle spezie era unito al sapore dolce dello zucchero.

Un altro dato su cui riflettere. Contrariamente a quel che si può pensare, la cucina medievale era molto povera di grassi. Le salse, cui si faceva largo ricorso, erano ottenute mischiando componenti acidi: vino, aceto, succhi di agrumi o di uva acerba erano usati in composti fatti di molliche di pane, fegato, mandorle, noci, tuorli d’uova. Insomma, se con la macchina del tempo fossimo “teletrasportati” nella Milano del Seicento, magari nel banchetto allestito da una nobile famiglia, non aspettiamoci di trovare salse grasse come la maionese, la besciamella e tutti quei composti che, diffusi lentamente nel corso del Settecento, si affermarono in Europa tra Otto e Novecento.

Un’altra differenza rispetto alla nostra cucina risiedeva nel tipo di portate che venivano servite. Noi oggi presentiamo in ordinata successione le stesse portate a tutti i commensali. Questa usanza, conosciuta come “servizio alla russa”, si affermò in Europa solo nella seconda metà dell’Ottocento. Prima l’uso era ancora quello – di origine medievale – di servire i piatti per così dire “in contemporanea”: toccava ai commensali scegliere i cibi che preferivano. Un po’ come si usa oggi in Cina, in Giappone o nei buffet, anche se a quel tempo non esisteva certo quella concezione “egalitaria” per cui l’accesso ai cibi è aperto a tutti i partecipanti.

Allora esistevano varie tipologie di piatti ed ogni persona mangiava le pietanze previste per il suo ceto di appartenenza. La nobiltà ad esempio consumava quasi sempre carne o pesce, ma lo faceva spesso in modo esagerato perché era un segno di status. Nel XV secolo Malatesta Baglioni, capitano generale dei fanti della repubblica veneta, offrì a Crema due pranzi faraonici che si protrassero per tre giorni: il primo era composto di 1438 vivande, tra le quali colpiscono piatti che oggi ci sembrano a dir poco artificiali: ad esempio il pollo cotto nello zucchero e bagnato nell’acqua di rose; il secondo, a base di pesce, presentava ‘solo’ 650 piatti assortiti nelle più ricche variazioni. Un vero supplizio per i convitati!! I ceti popolari ricorrevano ai legumi o ripiegavano su piatti quali la luganiga (carne tritata di maiale, condita con sale, sostanze vegetali aromatiche e inserita dentro le intestina di agnello) o la cervellata (composto di scarti porcini o di rognoni di manzo tritati, salati e misti con cacio lodigiano).

Nella seconda metà del Quattrocento era molto conosciuto in Europa il ricettario di Bartolomeo Sacchi detto “il Platina” (il soprannome latino indicava il paese di origine: Piadena nel cremonese): il De honesta voluptate et valetudine. Eppure, a ben vedere,  il contenuto di questo testo non era farina del sacco del Platina. Il ricco elenco di ricette riprendeva l’opera del maestro Martino de Rossi, un esperto di cucina originario della val di Blenio, territorio che a quell’epoca era parte integrante del ducato di Milano. Martino viaggiò nei vari Stati italiani: fu al servizio della corte milanese di Francesco Sforza, cucinò a Roma per i pontefici, ritornò a Milano per deliziare il palato del suo nuovo datore di lavoro: il condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio il cui palazzo, oggi scomparso, era in via Rugabella, nel sestiere di Porta Romana.

Il libro di Martino, De arte coquinaria è una fonte preziosa perché le sue ricette, diffuse alla fine del Medioevo, continuarono ad essere praticate nella cucina italiana fino al Seicento e al primo Settecento. In fondo, può essere considerato l’antenato dei manuali gastronomici italiani. La pasta era presentata per la prima volta come un piatto a sé stante; comparivano nuovi elementi destinati ad avere larga fortuna: ad esempio la polpetta e la frittella. Inoltre faceva la sua prima apparizione la melanzana.

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